Afghanistan, un ritiro che sa di sconfitta

Due grandi novità dall’Afghanistan. Tenendo ben presente che “grande”, in questo caso, non è necessariamente sinonimo di “bella”. La prima è il passaggio di consegne dalla Nato all’esercito nazionale afgano in materia di sicurezza. Saranno le forze di Kabul a mantenere l’ordine dopo 12 anni di impegno militare internazionale, un anno prima del previsto ritiro dei contingenti stranieri. La seconda grande novità è l’apertura ufficiale di un dialogo diretto fra gli Stati Uniti e i Talebani. Cosa si ricava da queste notizie? Una sola considerazione: dopo 12 anni, la Nato si ritira dall’Afghanistan e cerca di metterci una pezza sopra, dialogando con il duraturo e resistente nemico. Come sempre, nelle guerre irregolari, è difficile fissare un confine fra la vittoria e la sconfitta. Comparando, però, i risultati attuali con gli obiettivi che la Nato si era prefissata nel 2001, il quadro che appare è tutt’altro che vittorioso.

Era intenzione della Nato sconfiggere Al Qaeda, rovesciare il regime talebano, instaurare in Afghanistan uno Stato moderno, stabile e democratico. I primi due obiettivi sono stati raggiunti solo in parte, il terzo è ancora di là da venire. E in questa condizione inizia il ritiro… I vertici militari statunitensi evidenziano soprattutto i risultati positivi raggiunti: Al Qaeda è stata dispersa, l’esercito nazionale afgano è ormai completamente costituito e addestrato (in 12 anni…), gli aiuti internazionali hanno aiutato a costruire un nuovo Stato, in cui sono maggiormente garantite le libertà civili e le opportunità economiche, sono state costruire migliaia di nuove scuole aperte alle donne e sono migliorate le condizioni sanitarie, allungando la speranza di vita. Visti dall’interno, però, anche questi successi appaiono fragili. La rivista Christian Science Monitor, l’anno scorso, aveva pubblicato un lungo reportage a firma di Scott Baldauf che documentava i limiti del cambiamento. E le ampie possibilità di tornare indietro. Aveva intervistato Ahmedullah (cognome rimasto segreto), un maggiore dell’esercito nazionale afgano. E questi gli aveva spiegato che il senso di unità nazionale nel nuovo corpo armato era il più condiviso e sentito dai tempi di re Ahmad Shah Durrani, padre del moderno Afghanistan del 1747.

Ma gli aveva anche detto che dopo il ritiro del 2014, «… il suo battaglione, probabilmente, si disintegrerà (su linee etniche, ndr) senza la disciplina e l’unità culturale che gli eserciti occidentali aiutano ad implementare». Aveva parlato con un funzionario pubblico, chiamato Bashir: «Bashir era felice di vedere i Talebani che se ne andavano. Ma questo non lo ha reso un sostenitore del governo di Karzai, che li aveva rimpiazzati. “Se qualcuno vuole migliorare la sua condizione di vita, lo deve fare da solo. Dal governo non ci si deve aspettare niente. Solo coloro che sono parenti di qualche funzionario ricevono qualche aiuto. Altrimenti si devono pagare tangenti». Aveva parlato con Yama Torabi, direttore di Integrity Afghanistan, osservatorio sulla corruzione. E questi gli aveva risposto: «L’anno scorso (due anni fa, ndr), quando il budget di Usaid è stato ridotto del 40%, è stata una buona notizia per noi. Il flusso di denaro ha diffuso la corruzione nel settore pubblico. I donatori devono spendere miliardi di dollari per ricostruire questo Paese e non hanno la capacità di controllare dove i loro soldi vengono spesi. Se ne avessero donati meno, la gente li avrebbe usati meglio».

Aveva intervistato anche un sostenitore dell’insurrezione talebana, chiamato Mahmud: «Il problema è la presenza di soldati stranieri sul suolo afgano – gli aveva risposto – Con le retate notturne con cui gli americani irrompono nelle case dei sospetti e arrestano persone nel sonno, gli americani attaccano il nostro popolo. È per questo che la gente si arruola nelle file degli insorti». Scott Baldauf aveva parlato anche con una ragazza afgana. Le ragazze, soprattutto quelle in età scolare e universitaria, sono state le maggiori beneficiarie della cacciata dei Talebani. Da persone completamente prive di diritti, sono diventate cittadine a tutti gli effetti. Il 35% della popolazione studentesca afgana è femminile, attualmente. Ma la ragazza intervistata teme che il governo Karzai riapra le porte ai talebani. Già l’anno scorso il governo di Kabul aveva iniziato a ripristinare la segregazione sul posto di lavoro e limiti legali ai diritti di viaggio delle donne, imponendo l’obbligo di accompagnamento di un parente maschio. Quella ragazza non sapeva ancora che anche gli americani, adesso, iniziano a dialogare con i talebani. Il “fallimento in Afghanistan” inizia ad essere uno dei temi più presenti nei dibattiti accademici americani.

I primi ad averlo previsto sono stati i libertari del Cato Institute. Comparando l’Afghanistan all’esperienza di successo del “nation building” in Giappone e in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale, Gary Dempsey, del Cato Institute, citava alcuni fattori che fanno la differenza: «Tanto per cominciare, il livello di educazione e il know-how industriale nella Germania e nel Giappone del dopoguerra, che hanno aiutato a rilanciare l’economia della ricostruzione in entrambi i Paesi, non sono comparabili ad altri contesti. La Germania, inoltre, aveva una lunga tradizione di governo della legge, diritti di proprietà e libero mercato prima del periodo nazista. L’élite giapponese, dal canto suo, era pregna di una cultura dell’onore, che implicava il rispetto e l’obbedienza ai voleri del vincitore in guerra. L’Afghanistan e i suoi vicini, al contrario, hanno ben poca tradizione liberale alle spalle e ancor meno abitudine ad accettare un massiccio e duraturo intervento straniero. Di più: i leader della Germania e del Giappone non erano solo stati platealmente sconfitti in guerra. Anche la loro ideologia era ormai totalmente in discredito agli occhi dei loro stessi cittadini alla fine del conflitto. Questi fattori resero entrambi i Paesi i candidati ideali per un’operazione di “nation building”. È prematuro affermare che questo stesso processo sarà compiuto dai leader talebani.

L’Islam radicale potrebbe rimanere l’ideologia dominante e i suoi partigiani potrebbero essere ancora visti come eroi e martiri». Questo lo scriveva Dempsey nel 2001, all’inizio della guerra. All’inizio dell’estate di questo 2013 possiamo dargli torto? Il politologo Stephen Walt, sulla rivista Foreign Policy, indicava tre cause principali della sconfitta in Afghanistan (che lui dà per certa): «L’intero apparato della sicurezza nazionale (statunitense, ndr) non ha riconosciuto o non ha capito fondamentali contraddizioni fra: 1) l’interesse nazionale, che era limitato 2) i nostri obiettivi ufficiali, che erano molto ambiziosi 3) la vastissima riserva di risorse e pazienza che sarebbe stata necessaria per raggiungere i nostri obiettivi ufficiali. La vittoria avrebbe richiesto un impiego di risorse molto superiore a quanto eravamo disposti a spendere, un assunzione di rischi eccessivi e di azioni dall’esito incerto contro altri Paesi, quali il Pakistan. I leader degli Stati Uniti hanno scelto saggiamente di non fare niente di tutto questo. Ma non hanno realizzato quanto questa scelta abbia inciso negativamente su tutto lo sforzo bellico». In pratica, l’interesse nazionale era limitato allo smantellamento di Al Qaeda e l’uccisione di Bin Laden. Scegliendo di aggiungere anche l’obiettivo del “nation building”, la Nato ha fatto il passo più lungo della gamba e non ha avuto il coraggio di compierlo fino in fondo. Perché, tutto sommato, riteneva che non ne valesse la pena.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:50