Libia: è il momento giusto per riparlarne

Era ora che i media si occupassero dell’affaire libico, magari portando un po’ di luce in una vicenda affollata da troppe ombre. Sarebbe stato opportuno, però, che ad aprire le danze non provvedessero quelli del “Fatto quotidiano” , non fosse altro per la loro patologica ostinazione a rappresentare Berlusconi come la radice di tutti i mali. Ma di Libia si doveva, e si deve, parlare. Sono passati quasi due anni dalla consumazione di quella impresa bellica che, nella sostanza fattuale, ha rappresentato una parentesi di guerra coloniale di stampo otto/novecentesco, all’alba del terzo millennio . E la teoria della “primavera araba” quale fattore propulsivo di cambiamento in senso democratico dei regimi nordafricani, di cui pur si è tanto discusso, alla prova dei fatti si è liquefatta come neve al sole del deserto.

Davvero qualcuno avrebbe potuto ritenere attendibile la tesi di parte occidentale della liberazione del popolo libico dal giogo della tirannide? Davvero si sarebbe potuta sostenere, oltre il limite del buon senso, l’idea che le evolute democrazie occidentali fossero contrarie in modo ontologico all’esistenza stessa di regime autoritari oppressori degli elementari diritti umani, tanto da non poterne tollerare la sopravvivenza? Ma una così spiccia modalità di "liberare" i libici non è stata messa in campo per i siriani. Bashar Hafiz Al – Asad, il macellaio di Damasco, è ancora lì al suo posto e regna indisturbato. Si dirà: adesso sì che i buoni cittadini libici hanno ritrovato la strada del benessere e della pace, nella pacifica e democratica convivenza. In realtà, così non sembrerebbe. Un qualificato osservatore qual è Bernard Selwan Koury il 20 maggio scorso, dalle pagine on- line di Aspenia, ha tracciato un quadro dell’attuale situazione libica assai poco confortante. Secondo Koury in assenza di un insieme ordinato di misure di sicurezza interna da porre in essere per fronteggiare il caos, la fragilità della situazione politica rischia di alimentare un vuoto, che potrebbe facilmente essere colmato dalle forze della Fratellanza Musulmana «in coordinamento con l’ala più oltranzista, quella salafita, dotata a sua volta di proprie milizie». Cosicché avremmo praticamente alle porte di casa nostra un bel po’ di convinti assertori del Jihadismo, in tutte le sue declinazioni.

Complimenti, un bel capolavoro di alta strategia! Sarebbe troppo chiedere che si racconti la verità? Allora, diciamo una buona volta che dei libici e della loro condizione miserabile non fregava niente a nessuno. Che il vero solo, unico obiettivo era sottrarre un paese ricco e produttore energetico di prima grandezza alla sfera d’influenza politica dell’Italia. Che l’accelerazione dei rapporti commerciali italo- libici, voluta fortemente dal governo Berlusconi, infastidiva non poco le cancellerie occidentali. Che fin quando la massa ingente di capitali libici avrebbe avuto libero accesso all’economia italiana, il nostro paese sarebbe stato pressoché inattaccabile dalla speculazione finanziaria internazionale. È un caso che il tanto evocato spread nel marzo 2011, cioè all’ inizio delle manovre militari per rovesciare il regime di Al – Qaddhafi fosse stabilizzato intorno al suo massimo valore di 160 punti base, nonostante la fibrillazione sui Titoli di Stato del Portogallo e dell’Irlanda? Oggi se scende, per qualche ora, sotto i 278 punti le autorità di governo pasteggiano a spumante. Con l’attacco al nostro debito sovrano, i media in prima fila si sono scatenati sulla questione del debito pubblico, il terzo più alto al mondo.

Forse che i mercati, prima dell’estate del 2011, non sapessero che l’Italia aveva da un bel po’ di tempo sul groppone un gigantesco passivo ? L’hanno tutti scoperto dopo? Se la situazione era già tanto critica da giustificare l’assalto della speculazione al titolo italiano perché l’allora direttore generale della Banca d’Italia, Fabrizio Saccomanni, oggi osannato ministro dell’economia, in un intervento presso il Bundesministerium der Finanzen tedesco, a Berlino l’8 febbraio del 2011 si spingeva a dire che «lo spread dell’Italia, che era più alto di quello della Spagna fino all’aprile 2010, si è poi mantenuto costantemente al di sotto dello spread spagnolo fino ad oggi, testimoniando la valutazione positiva del mercato per la gestione della finanza pubblica in Italia in questa fase di crisi... .La valutazione del mercato riflette il basso livello del debito privato dell’Italia, la solidità del suo sistema bancario, l’alto livello della ricchezza, reale e finanziaria, delle famiglie e,infine, l’ampiezza e l’articolazione della sua industria manifatturiera, operante in tutti i principali settori»? Fu bugiardo Saccomanni a tracciare un profilo così confortante dell’economia italiana agli inizi del 2011, un momento prima dell’esplosione della crisi libica, o stava semplicemente descrivendo la realtà? Per intenderci, quella dei “ristoranti pieni” di berlusconiana memoria.

Perché allora i banchieri tedeschi, solo pochi mesi dopo aver ammirato in casa propria l’idilliaco quadro dipinto da Saccomanni sui conti pubblici italiani, sono corsi a dar via i nostri Titoli di Stato come fosse merce avariata? Non saprei dire quale sia la verità, non ho sufficienti elementi per confermare un giudizio compiuto. Non ho accesso ai dati sensibili dell’ affare libico. Posso però provare a descrivere ciò che ho provato in quei giorni. Una profonda delusione per il comportamento dell’amministrazione americana impegnata con più accanimento nella resa dei conti contro i governi amici della propria opposizione interna piuttosto che a fare il mestiere di superpotenza strategica planetaria, dimentica di quanto l’Italia di Berlusconi avesse fatto per gli USA, in occasione delle misure contro il terrorismo internazionale che condussero alle operazioni di guerra in Afghanistan, della vicenda irachena, e non solo. Un’insopportabile frustrazione per il comportamento della presidenza francese che, in nome dei propri obiettivi di politica estera, non ha avuto scrupolo a restituirci, con settant’anni di ritardo e un pesantissimo carico d’interessi ,“la pugnalata alla schiena”. Un doloroso senso d’impotenza verso coloro che, in un modo o nell’altro, pilotano il sistema e non gradiscono, in questo, di essere disturbati, perché non vi è dubbio che il governo Berlusconi in materia di mosse sullo scacchiere internazionale abbia più di una volta compiuto scelte eterodosse, non sempre in linea coi desiderata del manovratore.

E, infine, un profondo rimpianto: che Berlusconi, non avesse trovato il coraggio, recuperando in un attimo tutta la sua lucidità, di tacitare i suoi “disinteressati” collaboratori, stracciare tutti i sondaggi orari sull’impatto presso l’opinione pubblica delle sue performance amatorie che già giravano copiosi, chiudere in un ripostiglio di Palazzo Chigi la Ghisleri, e trasformarsi nel Craxi di Sigonella. Battere i pugni sul tavolo e dire a voce alta: "Posto che il signor Al-Qaddhafi non è quel fior di galantuomo che ci si aspetta di conoscere, è un aguzzino e un despota proprio come lo descrive la stampa internazionale, ma dal momento che gli interessi economici e strategici italiani hanno la precedenza su qualsiasi altra considerazione, allo stesso modo di come tutte le potenze tutelano i loro affari sotto ogni latitudine, la questione libica la risolvo io. Magari convoco a Roma una conferenza di pace dove costringo il mio amico Al-Qaddhafi ad ascoltare le ragioni dell’opposizione. Ma voi tutti gentilmente statene fuori". Invece è finita alla maniera dell’8 settembre, con il solito metodo italiano, per cui siamo tanto “apprezzati “ al mondo, di cambio delle alleanze in corsa.

E neppure è bastato, visto il modo feroce con il quale, perso di fatto il sostegno di un forte partner finanziario, quale è stato la Libia fino alla caduta di Al-Qaddhafi (a proposito che fine ha fatto la vagonata di contratti per le imprese italiane che avrebbero dovuto costruire la nuova Libia, concordata dai due leaders nel 2010 con la chiusura del contenzioso post bellico italo-libico?) le istituzioni europee hanno imposto all’Italia intollerabili misure di rigore apparentemente per contenere la crisi finanziaria. Assomigliavano di più a sanzioni di guerra ad una nazione sconfitta che a un piano di sostegno. Poco ci mancava che tirassero fuori il treno speciale sul binario morto della linea Compiègne-Soissons su cui gli alleati della Triplice avevano costretto la Germania a firmare l’armistizio dopo la prima guerra mondiale o che chiedessero in prestito agli americani la Missouri per l’atto di resa dell’Italia berlusconiana. Non posso dimostrare se tra i due eventi vi sia stato davvero un così stretto nesso di causalità. Non ho alcun elemento probatorio, solo qualche indizio logico. È vero, però, che da quella infausta stagione la nostra vita è profondamente cambiata, in peggio.

La nostra economia è stata ridotta in macerie esattamente come in un conflitto bellico. L’amaro gusto della sconfitta ha aleggiato in un contesto nel quale anche i sorrisini e le scrollate di spalle di personaggi del calibro della Merkel fanno la differenza. E il morale degli italiani oggi appare più simile a quello dei vinti che a quello dei salvati. Siamo stati travolti da una guerra e non ce ne siamo accorti. Ora ne patiamo le conseguenze. Per uscire da questo stato depressivo dobbiamo, come direbbero gli psicologi, ” elaborare il lutto”, cioè dobbiamo trovare il coraggio di parlarne. Ecco perché penso che sia giunto il momento di mettere all’ordine del giorno una seria riflessione collettiva sulla vicenda libica e le sue conseguenze.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:35