Iran, i motivi  per non festeggiare

Smaltiti i festeggiamenti, è meglio tornare a vedere in faccia la realtà: alle elezioni iraniane non ha vinto un “moderato”, nel nostro senso del termine. Il nuovo presidente è un religioso, Hassan Rouhani, che è uno dei principali responsabili della politica nucleare dell’Iran, un conservatore che appartenne alla cerchia ristretta di chierici fedeli al primo ayatollah Rouhollah Khomeini, ora sostenuto dall’unico leader iraniano che ha esplicitamente invocato la distruzione nucleare di Israele e legittimato, senza problemi, dall’attuale ayatollah Khamenei, padre del programma atomico iraniano. Sarà per lo scetticismo a cui ci hanno abituato le primavere arabe; sarà perché, specialmente per il Medio Oriente, i media tendono ad innamorarsi troppo presto delle novità per poi restarne scottati; sarà perché si deve fare la tara ad ogni informazione che arriva da un regime totalitario (quale è l’Iran), ma è meglio vedere, in anticipo, quali potrebbero essere i motivi di una prossima delusione. Prima di tutto, appunto, si deve vedere il passato di Rouhani, la biografia pubblica, nulla di segreto: gli incarichi ricoperti sinora e le prese di posizione pubbliche.

Rouhani ha sostenuto la repressione del movimento di protesta studentesca del 1999, quando vennero uccise 17 persone e altre 1000 (o 1500) vennero arrestate. Non si è mai ufficialmente allineato al movimento riformista. Non era dalla parte dei manifestanti durante la Rivoluzione Verde del 2009. Posizioni ricoperte: dal 1989 al 2005 era alla testa del Consiglio di Sicurezza Nazionale. Per i primi 5 degli anni 2000, ha gestito in prima linea la questione nucleare, ricoprendo il ruolo di capo negoziatore dal 2003 al 2005. I governi occidentali vedono bene la sua elezione, perché nel 2005 fu lui ad essere allontanato da Ahmadinejad e ad essere sostituito da negoziatori più inflessibili, come Larijani. Ma non bisogna dimenticare che, proprio in quanto abile negoziatore, Rouhani è uno strenuo difensore dell’atomica iraniana. E, non a caso, le sue prime dichiarazioni da neo-eletto presidente, sono una difesa a spada tratta del processo di arricchimento dell’uranio, l’aspetto più controverso del programma nucleare. Programma che, dalla fine degli anni Novanta sino al 2002 (quando Rouhani era alla testa del Consiglio di Sicurezza Nazionale), era completamente segreto e che solo nel 2003 è emerso tramite le rivelazioni di dissidenti.

Non certo per un’ammissione del regime. La prima sorpresa dei riformisti iraniani è stata la facilità con cui l’attuale ayatollah Khamenei abbia dato la sua approvazione al nuovo presidente. Ci si sarebbe attesi un lungo braccio di ferro, ma invece niente. La facile ascesa del nuovo “riformatore” è forse troppo facile. E quindi è meglio ricordare come funziona il sistema elettorale iraniano. Il Consiglio dei Guardiani ha eliminato Rafsanjani, non perché troppo moderato, ma perché troppo direttamente rivale di Khamenei. Leader che si sono esposti in prima fila nella Rivoluzione Verde, quali Moussavi e Karroubi, sono tuttora agli arresti domiciliari. Centinaia di attivisti e dissidenti, identificati con l’opposizione al regime, sono stati arrestati prima delle elezioni. Come se non fosse chiaro, le elezioni iraniane sono pilotate. Nel 2009, l’azione di distorsione della volontà dell’elettorato è stata talmente palese che la gente è scesa in piazza, in una rara protesta di massa che poteva sfociare in una rivoluzione. Ora il controllo è stato esercitato indirettamente: si è lasciato libero sfogo al voto popolare, permettendo al 75% di elettori che si è recato alle urne di optare per l’unica figura vagamente riformatrice rimasta nell’arena.

Questi cambi di rotta “coincidono” con i cicli del programma nucleare. Alla fine degli anni Novanta, il programma era agli inizi, il regime iraniano aveva bisogno della massima tranquillità possibile, per non destare sospetti. In quegli anni, fino al 2005, era presidente Khatami, il più riformista che la storia iraniana ricordi dal 1979 ad oggi. Nel 2005, invece, il programma era molto avanzato e il contesto internazionale a dir poco turbolento, con una guerra alle porte, in Iraq. Serviva un duro e il duro è arrivato, con l’elezione di Ahmadinejad: l’Iran non aveva nulla da nascondere sul suo programma atomico (scoperto negli anni precedenti) e necessitava di un maggior potere intimidatorio. Oggi l’Iran è ancora alle strette: fra virus informatici e uccisioni di scienziati, il programma atomico è in difficoltà, le sanzioni stanno mettendo l’economia al tappeto. Serviva un nuovo Khatami e l’ayatollah Khamenei ha lasciato che il popolo eleggesse Rouhani. Ma è sempre il vertice religioso che apre e chiude la valvola dei riformatori. E il vertice ha tutto l’interesse che nulla cambi realmente, né nella politica interna, né, tantomeno, in quella estera. A proposito di esteri, si deve ricordare che il programma nucleare, la Guardia Rivoluzionaria, i Basij (artefici della repressione del 2009), la politica di collegamento con Hezbollah, le armi alla Siria, sono tutte materie che Rouhani non può neppure gestire, visto che sono appannaggio dell’ayatollah Khamenei. Quanto alla politica di odio contro Israele, è ancor più difficile vedere qualche cambiamento. Rouhani ha ottenuto l’endorsement soprattutto da quello stesso Rafsanjani che, nel 2001, dichiarava pubblicamente: «Per distruggere Israele basta una sola bomba atomica».

Ad essere in difficoltà, appunto, sono ora Israele e i dissidenti iraniani. Il primo aveva l’opportunità di far capire al mondo la sua posizione solo facendo ascoltare le dichiarazioni di Ahmadinejad. C’è da temere che, chiunque arrivi al vertice del governo di Gerusalemme, d’ora in avanti si trovi ad avere a che fare con un più scaltro leader iraniano che prepara l’atomica, parla di pace e sorride all’Occidente. Israele, in tal caso, tornerebbe ad essere isolato, non creduto e condannato unilateralmente per ogni eventuale azione di auto-difesa. C’è anche da temere che i dissidenti iraniani (autenticamente dissidenti, non solo rivali politici di questa o quella corrente interna al regime) subiscano la sorte peggiore. Come sempre, quando c’è un falso riformatore al vertice di un regime totalitario, come Gorbachev, come Deng Xiao-ping, come Khatami, i dissidenti subiscono la doppia persecuzione di essere incarcerati o uccisi in patria, tacitati o derisi in Occidente.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:41