Perché Obama interviene in Siria

Perché proprio adesso? Perché dopo così tanto tempo? Sono queste le domande che viene naturale porsi ascoltando la decisione di Barack Obama di inviare armi ai ribelli siriani. La sua amministrazione lo stava già annunciando (tramite il ministro della Difesa Chuck Hagel) da un mese. Prima sotto forma di ipotesi, poi di mossa ormai inevitabile, l’appoggio indiretto all’insurrezione anti-Assad era nell’aria. Il comunicato pubblicato da Ben Rhodes, vice consigliere della Sicurezza Nazionale statunitense, spiega il cambio di rotta americano, dalla neutralità all’intervento, come risposta all’uso di armi chimiche da parte del regime di Assad. «Su istruzioni del presidente, il governo degli Stati Uniti ha monitorato attentamente il potenziale uso di armi chimiche in Siria – dichiara Rhodes – Dopo un’analisi compiuta dalla nostra comunità di intelligence in aprile, il presidente ha chiesto di cercare credibili informazioni, corroborate da prove, per ricostruire i fatti con un certo grado di certezza.

Oggi stiamo fornendo un versione aggiornata della nostra analisi al Congresso e al pubblico. Il rifiuto, da parte del governo siriano, di consentire l’accesso alle Nazioni Unite per investigare su ogni credibile accusa di uso di armi chimiche, ha impedito di svolgere un’indagine internazionale completa». Di conseguenza l’indagine è stata compiuta dai soli Stati Uniti, con l’aiuto, secondo la dichiarazione di Rhodes, di «individui all’interno della Siria, compresi membri dell’opposizione siriana». Di conseguenza: «… la nostra comunità di intelligence ha stabilito che il regime di Assad abbia usato armi chimiche, compreso l’agente nervino Sarin, su scala ridotta contro l’opposizione, più di una volta nell’ultimo anno». È la conferma che il regime di Assad ha “passato la linea rossa”, quella tracciata da Obama lo scorso agosto, superata la quale il regime dovrebbe “far fronte a gravi conseguenze”. Le “gravi conseguenze” sono spiegate nell’ultima parte del comunicato: «In sintesi, il regime di Assad dovrebbe sapere che le sue azioni ci hanno spinto ad incrementare il fine e le dimensioni dell’assistenza che forniamo all’opposizione, compreso il sostegno diretto al Comando Supremo Militare (dell’Esercito Libero Siriano, ndr).

Questi sforzi aumenteranno e proseguiranno. Gli Stati Uniti e la comunità internazionale hanno a loro disposizione una serie di altre possibili azioni legali, finanziarie, diplomatiche e militari. Siamo preparati ad ogni evenienza e prenderemo le nostre decisioni in base alla nostra tabella di marcia». Un linguaggio contorto per una (mezza) dichiarazione di guerra al regime siriano. Nemmeno in un processo civile italiano sono così oscuri. Obama tira fuori il legale che c’è in lui, dimentica di essere un politico, parla di indagini e di prove, dopo aver affermato di non credere ciecamente alla sua intelligence. E infine decide di dare armi ai ribelli. Contorta, oltre alla fraseologia, è la tabella di marcia seguita sinora: a fine marzo si apprende dai media dell’uso delle armi chimiche. A fine aprile, un mese dopo, non solo l’intelligence americana, ma anche quella israeliana, francese e britannica si dicono certe del loro uso. Obama dichiara, a costo di screditarle tutte quante, che le prove non sono sufficienti. A inizio maggio gli israeliani si muovono da soli, colpendo con la loro aviazione un convoglio di terra siriano diretto al Libano (missili per Hezbollah) e un impianto per ricerca e lo sviluppo della guerra chimica, a Ovest di Damasco.

Obama non si muove. Adesso, a freddo, decide che le prove raccolte dall’intelligence siano valide e decide di compiere il passo successivo: armi ai ribelli. Che non è un intervento dichiarato, ma un gradino sotto. È evidente che il presidente statunitense sia riluttante a intervenire, soprattutto considerando che la maggioranza degli americani non vuole battersi per la Siria. Stupisce il momento, piuttosto. Se Obama avesse voluto intervenire a caldo, avrebbe dovuto farlo un mese fa. Sembra che, nel frattempo, qualcosa di esterno alla sua volontà lo abbia “costretto” ad agire. I fattori in gioco sono tanti. Russia: la decisione di inviare missili anti-nave Yakhont e poi di annunciare l’invio (nel prossimo futuro) di sistemi anti-aerei S-300 ha precipitato la situazione. Se la Siria di Assad dovesse dotarsi degli S-300, infatti, Israele rischierebbe di rimanere paralizzato: se schierati sul Golan, possono intercettare ogni singolo aereo, civile o militare che sia, che decolla dalle piste dello Stato ebraico. Una “no-fly zone per Israele” l’ha definita il governo Netanyahu.

In tal caso, il rischio di una nuova guerra arabo-israeliana è diventato più concreto che mai. Assad: lo stesso dittatore siriano ha fatto di tutto per attirare le ire della potenza americana, oltre che dell’opinione pubblica occidentale. Galvanizzato dalle nuove armi in arrivo dalla Russia, ha iniziato a lanciare la sua offensiva contro Qusair, ottenendo la sua più grande vittoria militare dall’inizio dell’anno. Dopo la riconquista della città occidentale ha annunciato una prossima offensiva contro Aleppo. Non contento, ha iniziato a vantarsi con i media libanesi della sua prossima vittoria, dichiarando anche che la Banca Mondiale, con il consenso degli Usa, sia pronta ad aiutarlo con un pacchetto di aiuti per la ricostruzione del Paese. A questo punto, se non altro per rimediare ad una possibile figuraccia, l’amministrazione statunitense doveva per forza dire e fare qualcosa.

Hezbollah: se Qusair è stata riconquistata da Assad, lo si deve soprattutto all’intervento di 7000 guerriglieri del movimento sciita Hezbollah, basato in Libano. Il loro leader, Hassan Nasrallah, in uno dei suoi rari interventi pubblici, ha lanciato il proclama di vittoria in Siria. Combattendo in una città vicina al confine libanese, Nasrallah ha lanciato un tacito segnale anche ad Israele. Aumentando la sensazione che il conflitto possa dilagare. E, come si sa da trent’anni, Hezbollah è il braccio militare in Medio Oriente dell’Iran, dove ieri si sono tenute le elezioni e dove si decidono le sorti della pace e della guerra in tutta la regione. Pur molto riluttante, nonostante le dovute cautele, Obama si è sentito obbligato a passare il Rubicone. E lo ha fatto.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:36