Bengasi, gli americani potevano salvarsi

Qualcosa si poteva fare, a Bengasi, per salvare le vite di cittadini americani. E non è stato fatto. È questa la rivelazione (già ampiamente anticipata dai media) più scioccante di Gregory Hicks. Il diplomatico statunitense, vice-direttore della missione diplomatica in Libia, l’11 settembre 2012 era in Libia. Non era sul luogo dell’assalto, ma ne era informato in tempo reale, condividendo tutte le informazioni con il consolato di Bengasi. Finché «Ho ricevuto una chiamata dal primo ministro della Libia. Credo che sia la telefonata più triste della mia vita. Mi ha detto che l’ambasciatore Stevens era morto».

Mercoledì, Hicks è stato il protagonista dell’audizione alla Camera sui fatti di Bengasi. I Repubblicani (maggioranza, alla Camera) avevano già anticipato stralci dell’intervista a Hicks. Una mossa che era stata duramente contestata dalla minoranza democratica: Elija Cummings, leader democratico alla Commissione per la Sorveglianza e la Riforma del Governo, aveva parlato di “stralci di intervista” estrapolati “fuori dal loro contesto”. Invece Hicks ha confermato quel che i deputati repubblicani affermavano da tempo: non solo non è stato fatto abbastanza per salvare la vita all’ambasciatore e alle altre tre vittime statunitensi, ma l’amministrazione si è resa colpevole di insabbiamento nella narrazione degli eventi. Le forze speciali americane in Libia, secondo la testimonianza di Hicks, hanno ricevuto l’ordine di non muoversi. Questo dato contraddice quanto era stato detto in precedenza dall’amministrazione, secondo la quale, forze armate statunitensi sarebbero state dispiegate prontamente la notte dell’attacco. Un team delle forze d’assalto era invece pronto a prendere il volo quando Stevens veniva brutalmente assassinato dagli assalitori del consolato. Per lui non ci sarebbe stato, comunque, più niente da fare.

Ma Sean Smith, Glen Doherty e Tyrone Woods, morti nell’attacco, potevano essere salvati. Per trasportare le forze speciali statunitensi a Bengasi, il governo libico aveva messo a disposizione un suo C-130 a Tripoli. Ma l’alt è arrivato da Africom, il comando statunitense per le operazioni in Africa. «Non può andare ora, non ha l’autorità per farlo» è la comunicazione ricevuta da Hicks, secondo la sua stessa testimonianza. Il diplomatico lamenta anche la passività dell’aviazione, che avrebbe potuto fare qualcosa nel corso delle due ore e passa di attacco al consolato: «Io credo che avremmo avuto il tempo di lanciare un aereo o due su Bengasi, il prima possibile, dopo l’inizio dell’attacco. Credo che, a quel punto, non ci sarebbero stati attacchi con i mortai contro le dependance del consolato, perché i libici si sarebbero divisi». Quanto alla gestione dell’informazione dopo l’attacco, Gregory Hicks si è detto “sbalordito” dalla dichiarazioni di Susan Rice (ambasciatrice statunitense all’Onu), che attribuiva tutta la responsabilità degli eventi a un video amatoriale che scherniva Maometto, responsabile, secondo la prima versione data dal governo federale, della “sommossa” anti-americana. Nella sua testimonianza, il diplomatico riferisce che la natura terrorista e deliberata dell’attacco al consolato fosse chiara sin dai primi istanti e che Washington ne fosse perfettamente al corrente.

«Le informazioni che abbiamo si contraddicono ancora una volta – commenta la deputata repubblicana Cynthia Lummis – risulta infatti che le decisioni sulla sicurezza siano state prese a Washington. Ma poi, quattro mesi e mezzo dopo l’attacco a Bengasi, la segretaria di Stato Hillary Clinton ha dichiarato che queste decisioni venissero prese in Libia». Durissimo anche Darrell Issa, presidente della Commissione: ha accusato l’amministrazione Obama di non aver fornito alla Camera le informazioni richieste. Ha accusato Hillary Clinton di “insabbiamento” degli errori commessi dall’amministrazione. Elija Cummings, rispondendo da parte democratica, afferma che: «Ciò a cui abbiamo assistito, nelle scorse due settimane, è una campagna mediatica a tutto campo che non mira a investigare su quanto è avvenuto in modo responsabile e bipartisan, bensì a lanciare accuse infondate o a diffamare funzionari pubblici». Ciò a cui si assiste, al contrario, sembrerebbe proprio il totale disinteresse dei media alla vicenda. A parte Fox News e pochi altri organi di stampa dichiaratamente conservatori, non sembra proprio esserci alcuna campagna mediatica su questo scandalo. Tanto è vero che, secondo Kevin Cirilli, del quotidiano Politico, Hillary Clinton non subirà conseguenze. Lo constata dal fatto che nessuno, nel Partito Democratico, l’abbia sinora abbandonata. «Se ciò non avverrà, non credo che questa vicenda vada oltre questo scontro fra partiti qui a Washington». Pronti a eleggere la Clinton presidente nel 2016?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:34