Dubbi sulle armi chimiche in Siria

Le armi chimiche sarebbero già state usate, in Siria, il mese scorso. Gli attacchi con gas nervino sarin sarebbero stati due, ad Aleppo e Damasco. In entrambi i casi li avrebbe usati il regime contro i ribelli. L’uso del condizionale è d’obbligo, perché le stesse agenzie di intelligence statunitensi, che hanno pubblicato, ieri mattina, il rapporto sull’uso di armi di distruzione di massa in Siria, non sono unanimi, né sicure al 100% di questa affermazione. Di questo evento drammatico, quanto non confermato, si parla sempre più insistentemente da un mese a questa parte. Le notizie e le immagini dei civili intossicati da un agente nervino erano state diffuse quasi in diretta. Un mese fa, il regime aveva accusato Al Qaeda di aver condotto un attentato con gas tossici. I ribelli avevano, al contrario, accusato il governo, facendo notare come tutti gli arsenali fossero (e siano tuttora) saldamente nelle mani dei soldati regolari.

All’inizio di questa settimana, Israele ha ripetuto l’accusa nei confronti del regime di Damasco. Il governo di Gerusalemme, in base a suoi dati di intelligence, ha dichiarato di “disporre di prove” sull’uso del sarin. E ieri, in occasione della pubblicazione del rapporto statunitense, ha chiesto a gran voce un intervento internazionale per mettere in sicurezza gli arsenali di distruzione di massa siriani. Anche David Cameron pare sicuro che Damasco abbia lanciato i gas e ieri ha lanciato la sua accusa contro il regime siriano, denunciandolo per “la violazione di ogni regola di guerra”. I più prudenti sono proprio gli americani. Ma perché in passato, proprio sulla questione delle armi di distruzione di massa si sono esposti un po’ troppo. La Casa Bianca considera ufficialmente l’uso delle armi chimiche da parte del regime come la “linea rossa” che non può esser passata. Nel caso Assad la valichi, diverrebbe legittimo un intervento militare internazionale, come in Libia. E quindi, adesso? Un intervento militare in Siria non è “facile” quanto quello in Libia (che pure non è stato affatto una passeggiata). Intervenire contro il regime di Damasco vuol dire, prima di tutto, combattere contro un esercito regolare di circa 200mila uomini, dotati, oltre che di armi chimiche, anche di armi convenzionali russe di ultima generazione.

E, a proposito di Russia, intervenire in Siria vorrebbe dire andare automaticamente contro gli interessi di Mosca. Infine, ma non da ultimo, l’infiltrazione jihadista nell’opposizione ad Assad è sempre più evidente: Al Nusrah, l’organizzazione islamista della resistenza siriana, ha da poco giurato fedeltà ad Al Qaeda. E lo ha fatto pubblicamente. Mentre, da settimane, aleggia il sospetto che sia Hamas, il movimento islamista palestinese, ad addestrare i guerriglieri anti-regime. Per questi gravi motivi, tutti gli schieramenti politici statunitensi tengono il piede ben premuto sul freno. Un interventista dichiarato come il senatore repubblicano John McCain, nel caso della Siria, preme per un’ingerenza indiretta: autorizzare l’invio di armi ai ribelli, oltre agli equipaggiamenti non letali di cui gli Usa sono già fornitori. Sul fronte democratico prevalgono altre formule, già impiegate per la Libia, come l’istituzione di una “No Fly Zone” (area di interdizione dei voli) per proteggere i ribelli dall’aviazione del regime. Questa formula, apparentemente neutrale, in Libia ha portato all’intervento militare in meno di 48 ore.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:18