Siria, due anni di guerra civile

Secondo anniversario della guerra civile siriana. Quando era scoppiata la prima scintilla, a Deraa, il 15 marzo del 2011, pareva quasi un fatto naturale. Ben Alì era fuggito dalla Tunisia in gennaio, Mubarak era stato cacciato dall’Egitto in febbraio, Gheddafi iniziava a dover combattere contro il suo stesso popolo poco dopo. E insurrezioni, più o meno potenti, scoppiavano in Yemen, Sudan, Bahrein, Giordania e Marocco. Con tutto il Medio Oriente in fiamme, era abbastanza naturale pensare che fosse giunto il turno della Siria di Bashar al Assad. Il suo regime era un residuato del nazionalismo (ispirato, inizialmente, dal nazionalsocialismo tedesco) del Partito Baath. Rovesciato Saddam Hussein in Iraq, con la guerra del 2003, restava Assad quale ultimo esemplare. Oltre a tutto si trattava di un dittatore a dir poco riluttante, giunto al potere perché figlio di Hafez al Assad, ma tutt’altro che incline a governare un Paese a cui aveva preferito Londra per studiare e lavorare.

«Non abbiamo nulla da temere» dichiarava Bashar al Assad al Wall Street Journal, alla vigilia dei primi scontri nel suo Paese. Il dittatore siriano sosteneva di essere amato dal popolo, perché non era un uomo “al servizio degli Usa”, contrariamente ai leader della Tunisia, dell’Egitto e dello Yemen. Era convinto che le sue scelte di politica estera fossero «più ancorati alla reale volontà del popolo». Esattamente come Gheddafi era convinto che i veri termini del confronto fossero ancora quelli della contrapposizione fra mondo arabo e l’Occidente. Non si rendeva conto che le nuove rivoluzioni arabe, che scoppiavano per ogni dove, fossero originate dalla stessa natura tirannica di quei regimi, indipendentemente dagli schieramenti internazionali. Ma proprio per questo, la repressione è stata ancora più violenta. Sia nel caso della Libia che in quello della Siria, la rivolta è diventata guerra civile, perché entrambe le parti si ritengono portatrici di un messaggio rivoluzionario e non hanno alcuna intenzione di demordere.

Non stiamo parlando di dittatori corrotti e relativamente pacifici, pronti a lasciare il potere quando vedono di aver più da perdere che da guadagnare a rimanere aggrappati alla loro poltrona. Il regime baathista a Damasco, così come quello di Gheddafi in Libia, considerano il potere come un trampolino di lancio per una futura rivoluzione che unisca il mondo arabo. E per questo non sono disposti a mollarlo, a nessun costo. La scintilla fu molto piccola, invisibile anche agli occhi degli apparati di sicurezza siriani. Fu generata dall’arresto di un gruppo di ragazzini rei di dipingere graffiti anti-regime sui muri di Deraa. Le prime manifestazioni di protesta scoppiarono proprio per protestare contro quell’episodio, un fatto di ordinaria amministrazione in un regime autoritario. Alle prime manifestazioni, le forze di sicurezza reagirono col pugno di ferro. Ma ad ogni morto che provocavano, i funerali diventavano, a loro volta, l’origine di nuove manifestazioni ancor più estese.

Quando i primi scontri scoppiarono a Deraa, nel marzo di due anni fa, tutto ci si sarebbe aspettati fuorché 2 anni di guerra civile, 70mila morti (secondo le statistiche dell’Onu) e 1 milione di rifugiati. La sopravvivenza del regime è garantita principalmente da un fattore esterno: l’appoggio della Russia. Mosca fornisce armi e assistenza ad Assad, ma soprattutto si oppone strenuamente ad ogni forma di intervento internazionale a favore delle forze anti-Assad. Da un punto di vista militare, poi, il grosso dell’esercito (forte di 200mila uomini) è ancora fedele al regime di Damasco, nonostante le numerose diserzioni, anche di generali, al campo degli insorti. Contrariamente al caso della guerra civile in Libia, le forze dei ribelli non sono riuscite ad occupare un territorio e una città da erigere quale propria roccaforte e capitale alternativa. L’esercito siriano, in compenso, è riuscito a mantenere il controllo di tutte le posizioni chiave, prima che gli insorti potessero utilizzarle.

Per questo motivo, contrariamente alla guerra in Libia, relativamente statica (l’Est, con Bengasi capitale, controllato dai ribelli, contro l’Ovest, con Tripoli capitale, tenuto dai lealisti), è impossibile tracciare una linea del fronte in Siria. Se nella prima fase del conflitto gli insorti erano a Sud e si avvalevano dell’appoggio della Giordania, in un secondo periodo i combattimenti si sono concentrati a Ovest, al confine con il Libano, poi a Nord nelle aree di Idlib e Aleppo, al confine con la Turchia, anch’essa alleata del fronte anti-Assad. La stessa capitale, Damasco, è stata l’epicentro della guerra civile sia ad agosto che in questi ultimi mesi. Diversamente dalla guerra civile libica, in Siria il variegato fronte insurrezionale si è dato un proprio governo-ombra molto tardi. Solo nel novembre scorso, infatti, si è ufficialmente costituita una Coalizione Nazionale delle Forze Siriane Rivoluzionarie e di Opposizione. Prima di novembre, i gruppi erano rappresentati dal Consiglio Nazionale Siriano, riunito a Istanbul, che però non rappresentava tutti i gruppi di opposizione e stava diventando una fonte di divisione più che di coalizione. L’attuale Coalizione ha già ottenuto importanti riconoscimenti internazionali, fra cui quello degli Stati Uniti, lo scorso dicembre.

Con un governo-ombra internazionalmente riconosciuto, sarà più facile per le democrazie occidentali che sostengono l’insurrezione, mandare armi ai ribelli in modo legale. Gli Stati Uniti hanno già annunciato, nelle scorse settimane, l’impegno a inviare “equipaggiamento non letale”. L’Unione Europea, spinta soprattutto dalla Francia, pensa di rivedere l’embargo sulle armi in modo da poter fornire equipaggiamento bellico agli insorti. È anche una questione di competizione, perché i Paesi arabi e la Turchia già da due anni riforniscono i ribelli di tutto quello di cui hanno bisogno. E, dall’altra parte, l’Iran e la Russia non fanno mistero di dare tutto il sostegno possibile al regime di Assad. Le democrazie occidentali (al netto della Turchia) sono tuttora gli unici attori internazionali assenti dalla guerra civile siriana. Ma vi sono già tutti i segnali che vi stiano entrando.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 18:40