Il nostro ambasciatore nuovo ostaggio in India

Non facciamo a tempo a liberarne due, che già abbiamo un altro ostaggio nelle mani dell’India. In questo caso stiamo parlando dell’ambasciatore italiano a New Delhi, Daniele Mancini. Le autorità indiane, ieri, hanno dato l’ordine di aumentare la sorveglianza negli aeroporti, perché non lasci il Paese. Non prima del 19 marzo, almeno, quando è prevista l’udienza della Corte Suprema, che dovrebbe dare l’autorizzazione ufficiale all’espatrio. Secondo l’agenzia Ansa, l’attività dell’Ambasciata italiana e dell’ambasciatore si sta svolgendo, per quanto possibile, nella normalità. Oltre al trattamento riservato a Daniele Mancini, il governo indiano sta procedendo anche alla riduzione della sua presenza in Italia. Ieri sarebbe dovuto arrivare a Roma il nuovo ambasciatore Basant Kumar Gupta, un funzionario di altissimo livello (direttore generale del Ministero degli Esteri), ma la sua partenza è stata sospesa.

L’India starebbe studiando anche nuovi modi per disincentivare il commercio bilaterale fra i nostri due Paesi. Il governo di New Delhi non ha affatto digerito che l’Italia abbia permesso ai due marò Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, di rimanere in patria, invece che tornare in carcere in India, dopo una licenza che avevano ottenuto per votare alle elezioni. Lo considera come un “inganno all’italiana”. E qualcuno dei nostri concittadini gli dà pure ragione. Ma di quanti inganni all’indiana siamo rimasti vittime in questi 13 mesi? Prima di tutto, la nave Enrica Lexie, su cui i due militari erano a bordo, in servizio anti-pirateria, è stata attirata in porto, nello stato del Kerala, con un inganno. Si era parlato di un controllo, non di un blocco della nave (durato quasi un anno) e dell’arresto dei due militari (durato 13 mesi). Latorre e Girone sono rimasti in detenzione tutto questo tempo per una strage che, stando ai testimoni italiani, non è mai avvenuta. Secondo l’equipaggio della Enrica Lexie, infatti, i marò avrebbero sparato in acqua, davanti alla prua di un’imbarcazione. Secondo le autorità indiane, al contrario, avrebbero sparato contro l’equipaggio del peschereccio St. Antony. Ma non ci sono le prove per dimostrarlo.

Sul St. Antony sono stati rilevati fori di proiettili che non provenivano dall’alto (da una nave delle dimensioni dell’Enrica Lexie), ma sparati ad alzo zero. Le stesse testimonianze dell’equipaggio colpito sono cambiate più volte e paiono molto manipolate dalla polizia. E l’estate scorsa il St. Antony è stato inabissato: le prove non ci sono più. Gli esperti italiani sono stati esclusi dalle perizie balistiche. I magistrati italiani, che hanno aperto da subito un fascicolo sul caso, non hanno mai ottenuto dall’India le informazioni e le prove raccolte dai colleghi indiani. In ogni caso, l’incidente che ha coinvolto l’Enrica Lexie è avvenuto (per ammissione della stessa magistratura indiana) in acque internazionali. Dunque non sarebbe neppure spettato alla giurisdizione indiana. L’ultimo schiaffo era avvenuto dopo la scorsa licenza dei prigionieri in Italia, quando i due marò avevano potuto ricongiungersi con i loro familiari almeno per Natale. Subito dopo le feste, infatti, era prevista un’udienza della Corte Suprema indiana per decidere, una volta per tutte, a chi dovesse spettare il caso. Ma per l’ennesima volta, il massimo organo giudiziario indiano ha deciso di non poter prendere una decisione. Per esaminare il caso, il governo di New Delhi aveva intenzione di nominare un tribunale ad hoc. La palla sarebbe dunque passata dalla magistratura (teoricamente neutrale) alla politica indiana, i cui fini erano già abbastanza evidenti. E riusciamo ancora a sentirci in colpa?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:54