«Non chiamiamola Primavera»

Si è conclusa a Roma la 58^ Assemblea Generale dell’Ata (Atlantic Treaty Association) organizzata dal Comitato Atlantico Italiano. Il principale interesse dell’iniziativa è rivolto al Medio Oriente. Sta ancora cambiando tutto in quall’area del mondo. Egitto e Iran, che non dialogavano da un trentennio, si stanno riavvicinando. I Fratelli Musulmani fanno ancora temere una degenerazione della rivoluzione araba in nuovi regimi islamici. Il conflitto israelo-palestinese fa capolino anche nelle sale protette del Nato Defense College, che ospita l’Assemblea dell’Ata. Lo si vede chiaramente nel secco scambio di battute fra il giordano Oraib al Rantawi (direttore dell’Al Quds Center for Political Studies) e il generale israeliano Danny Rothschild. Il primo accusa Israele di essere all’origine di tutte le tensioni. Il secondo sottolinea che i problemi arabi sono generati dai loro stessi regimi. La primavera araba cambierà qualcosa? Prima di tutto si deve: «Far incontrare i giovani delle due sponde del Mediterraneo - come spiega il senatore Enrico La Loggia, presidente del Comitato Atlantico Italiano - Sono i giovani più brillanti, che poi saranno le classi dirigenti del futuro, è fondamentale per abbattere i pregiudizi e permettere a ciascuno di far conoscere all’altro le proprie ragioni». 

Uno di questi giovani brillanti è Amer al Sabaileh, analista di relazioni internazionali giordano che parla perfettamente l’italiano. Ospite frequente del nostro Paese, dove si è laureato, resta spesso e volentieri sconcertato dalla visione distorta che gli “esperti” nostrani hanno del Medio Oriente, di come abbiano improvvisamente cambiato le loro “certezze” allo scoppio della primavera araba e di come si fidino ciecamente di un falso senso di sicurezza chiamato “principio di stabilità”. L’Opinione lo ha incontrato a Roma, a margine della 58^ Assemblea.

Quali sono i principali stereotipi duri a morire sulla Primavera Araba?

Lo stesso termine “primavera” è ingannevole. La rivoluzione, qui, è vista come un sogno realizzato. Non è stato realizzato nulla, finora. La ribellione nasce da una miseria terribile, che c’è ancora. Parlare di “primavere arabe” non permette di comprendere né le cause, né il processo politico tuttora in corso. Per questo bisogna sempre studiare la realtà, anche se può apparire molto meno attraente di quello che sogniamo.

La rivoluzione del 2011 sembra essere scoppiata all’improvviso. Ma da quanto tempo se ne percepivano i sintomi?

Non è stata affatto una sorpresa. Tutti i semi della rivoluzione erano già stati gettati nel 1967, dopo la guerra persa contro Israele. Nel corso dei decenni, molti fattori hanno solo rallentato, non impedito, lo scoppio della rivoluzione. I fattori principali sono internazionali: le reti di alleanze e protezioni costruite dai leader arabi al potere. I rapporti di partnership non hanno permesso ai governi occidentali di capire la realtà nascosta dietro ai paraventi di queste dittature, dietro al fascino di re, emiri e presidenti. La rivoluzione, dunque, è maturata lentamente ed è giunta in ritardo. Ma non ha ancora realizzato quel modello di società a cui aspirava.

A cosa mirano i rivoluzionari?

Realizzare una vita migliore. In tutto il mondo arabo manca il senso dello Stato, mancano i diritti umani, non è rispettata la libertà di espressione. Ma, soprattutto: manca il rispetto per la persona. Solo dando pieno valore alla persona possiamo sperare di rispettarci, tollerarci, accettare il diverso, vivere meglio. Solo così si può arrivare ad una società pluralista, progressiva, che si identifica in una nazione e non in una famiglia di autocrati o in un singolo dittatore.

Questi valori, però, sono molto diversi da quelli dei Fratelli Musulmani, che hanno vinto le elezioni sia in Tunisia che in Egitto…

I Fratelli Musulmani oggi appaiono come i veri protagonisti della rivoluzione. Ma solo perché sono gli unici organizzati per prendere il potere. E questo perché i vecchi regimi dittatoriali si sono sempre alleati a loro, in realtà. In Egitto, benché fossero perseguitati, sono stati gli unici che si sono potuti organizzare in partito, mentre tutti gli altri erano proibiti. Perché questo? Per combattere le forze progressiste e democratiche. Per i regimi arabi più conservatori, i Fratelli Musulmani erano l’unico argine popolare da usare contro l’espansione del “nasserismo” (il nazionalismo panarabo di Gamal Abdel Nasser, primo presidente repubblicano egiziano, ndr). Per questo i Fratelli Musulmani ora hanno il potere: sono l’altra faccia del regime, hanno la barba al posto della divisa militare. Ma la ritengo solo una fase transitoria. Prima o poi il popolo si renderà conto che sono una nuova dittatura. E non passerà molto tempo: basti vedere che cosa sta succedendo in Egitto già in questi mesi. L’età delle dittature è finita. La paura non c’è più. Anche la scusa del governo islamico è scaduta. Chi vuole governare deve riflettere la vera realtà sociale araba e deve adottare un’agenda economica solida, per gestire un cambiamento.

Lei è giordano e la Giordania è l’unico Paese, nella regione, in cui non sta scoppiando la rivoluzione. E’ stabilità o calma apparente?

Io sono sempre scettico sulla definizione di “stabilità” usata in Occidente. Nessuno Stato arabo è stabile, per il semplice motivo che non ci sono degli Stati veri e propri. Nessuno di essi poggia su radici stabili, né sul consenso popolare. La monarchia giordana ha tanti problemi irrisolti e non ha cambiato il suo sistema. Si limita a sfruttare a suo vantaggio le crisi internazionali: approfitta della guerra siriana e della crisi egiziana per tessere più relazioni con i suoi partner e consolidare il suo potere interno. Ma quando queste crisi saranno finite? Se la Siria, come auspico, diventasse una vera democrazia? Se l’Egitto dovesse stabilizzarsi? A quel punto, la Giordania diverrebbe una realtà anacronistica. Sarebbe il momento della verità. La monarchia verrebbe costretta a fare le riforme o affrontare il suo destino.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:22