«Dal 1946 avviciniamo gli Usa al mondo»

Maria Grazia Quieti dirige la Commissione per gli scambi culturali fra l’Italia e gli Stati Uniti, che gestisce il Programma Fulbright. Le abbiamo chiesto di raccontarci qualcosa sul programma e la sua storia.

Quando nasce il Programma Fulbright?

Il programma fu lanciato del 1946 dal senatore J. William Fulbright. Grazie ad una borsa di studio dalla Rhodes Scholarship, Fulbright studiò scienze politiche all’Università di Oxford e, colpito dall’esperienza, alla fine della seconda guerra mondiale fece approvare una legge che promuovesse gli scambi culturali tra gli Stati Uniti ed il resto del mondo. Fulbright era convinto che i viaggi di studio e ricerca permettessero la reciproca conoscenza tra gli individui di diversa nazionalità, e la conseguente promozione della pace. Il programma ebbe grande successo e nel 1961 divenne una vera e propria legge – il Fulbright-Hays Act – dotata di budget: solo nel 1975 gli italiani iniziarono a contribuirvi, arrivando a finanziarlo per metà, e oggi il diminuito apporto governativo Italiano è bilanciato da donazioni private. Sono circa 10.000 le persone che dal principio hanno viaggiato tra Italia e Stati Uniti, nei due sensi. Oggi il Programma Fulbright esiste in 155 Paesi nel mondo e coinvolge studenti, ricercatori e professori di ogni campo didattico, personalità la cui eccellenza è garantita da una selezione nota per severità e rigore: è questo che genera il grande prestigio di questo programma, che vanta tra i propri alumni 44 premi Nobel e moltissimi intellettuali di livello mondiale. In Italia ne hanno fatto parte personalità come Giuliano Amato, Carlo Rubbia, Umberto Eco, Aldo Visalberghi, Tullio Regge, Franco Modigliani, Marcello Pera, Margherita Hack, Lorenzo Bini Smaghi; dall’America sono giunti numerosi premi Nobel statunitensi, tra gli ultimi citiamo  Oliver Williamson e il recentemente scomparso James Buchanan. Sarebbe interessante poter ricostruire la storia di questo Programma, dei suoi protagonisti e dell’influenza che fino ad ora ha avuto nella società italiana: una  grandissima parte dei nostri borsisti una volta tornati in Italia trova uno sbocco professionale in ambito accademico, qui o in Europa. 

Quali sono le attività della Commissione da Lei guidata?

Abbiamo rapporti diretti con le università italiane. Il nostro Programma non conferisce solo le borse Fulbright, ma effettua un vero e proprio servizio di informazioni e consulenza rivolto a chi non rientra nei parametri di eligibilità e di selezione   Fulbright: sono molte, nelle università americane, le fonti di finanziamento ma non è semplice muoversi tra di esse, e per questo la Commissione  aiuta a districarsi nel mondo accademico americano i ragazzi interessati a questo, o anche a ricercare una internship o seguire dei corsi di inglese. Incontriamo ragazzi straordinari, preparati, motivati, che ci fanno ben sperare per il futuro dell’Italia: ma il numero limitato di borse ci permette di premiarne solo alcuni. Nel 2012 ne abbiamo date 74 (metà ad americani e metà ad italiani), ma nel 2011 riuscimmo a darne 130. Collaboriamo con le università americane e col Dipartimento di Stato, e qui in Italia con l’Ambasciata Americana e con la Farnesina. Negli Usa ci sono due agenzie che ci aiutano a reclutare i borsisti: l’Institute of International Education a New York e il Council of International Exchange of Scholars, a New York e a Washington. Di grande valore è anche il patrimonio di contatto e di promozione, presso le istituzioni accademiche americane, dato dai borsisti degli anni passati. Infine, oltre alle borse di studio e al Servizio  Informazione svolgiamo attività culturali come conferenze e seminari legate al nostro programma e sulla base delle conoscenze e competenze dei nostri borsisti. Molti americani vengono qui per specializzarsi nelle discipline artistiche o umanistiche, ma le istituzioni con le quali collaboriamo qui in Italia sanno che andrebbe incentivato anche l’aspetto scientifico e tecnologico: pochi anni fa l’allora Ambasciatore Americano Spogli diede vita al programma Fulbright Best, diretto a sviluppare ed aiutare l’innovazione tecnologica e l’imprenditorialità tra i giovani. 

Il vostro è un perfetto punto di vista per descriverci quali siano le differenze tra il sistema di studio, ricerca ed insegnamento italiano e quello americano. 

Le rispondo citando un borsista italiano prima di partire, entusiasta di potersi “ossigenare”: sapeva di andare a incamerare la freschezza e la dinamicità delle università americane, così inebrianti rispetto a quanto accade qui da noi. Il poter facilmente trovare materiale di ricerca, le biblioteche aperte fino a tardi, la possibilità di avere accesso con semplicità a professori eccezionalmente noti e prestigiosi, che si aspettano - come diciamo sempre ai borsisti in partenza - che gli studenti li interroghino e si confrontino con loro: tutto ciò rende l’esperienza Fulbright fondamentale per i nostri ragazzi che vanno lì, anche perché il modello americano del Ph.D. è riconosciuto come il migliore in tutto il mondo. La borsa dura un anno, ma i nostri ragazzi sono bravi e riescono a rimanere anche in seguito: nel caso del Ph.D. fanno tutti e quattro gli anni, grazie a fondi supplementari che le università americane concedono loro avendone constatato la competenza e la voglia di impegnarsi. D’altronde, le persone coinvolte nell’università italiana, per mia esperienza, sono di grandissimo valore: crescono ed operano con strutture e condizioni economiche e burocratiche e prospettive indubbiamente meno favorevoli rispetto ai docenti e ricercatori americani, ma ugualmente raggiungono successi ed elevano la loro conoscenza come e anche più di altri. Certamente, poi, nel Ph.D. esistono regole molto ferree che conferiscono capacità di ricerca rigorosa ma anche spazio per la creatività.

I rapporti culturali tra i due Paesi sono da sempre molto fecondi. Dal punto di vista Fulbright, esistono peculiarità relative agli scambi tra Italia e USA rispetto a quelli con gli altri Paesi del programma?

La Commissione è un ente binazionale, che vede italiani e americani insieme, a decidere le priorità, le dinamiche e le direzioni in cui muoversi. Questa grande differenza rende più complicato ma anche più partecipato il Programma Fulbright rispetto ad altri programmi. Ogni Commissione nel mondo prende decisioni diverse rispetto alle sue altre omologhe.  In Italia,  ad esempio, spingiamo affinché più americani vengano nel campo delle scienze, che in maggior numero possano andare nel sud dell’Italia, e ovviamente  che siano sempre  più numerosi gli studenti italiani che dal meridione vanno negli Stati Uniti. Venendo nello specifico in Europa, alcuni paesi quali la Norvegia e la Germania sono così interessati al Programma che il loro finanziamento governativo oltrepassa il finanziamento del  Governo Americano; in Francia il Programma Fulbright si accompagna ad un grosso programma – finanziato dal Governo Francese - per l’insegnamento della lingua inglese, mentre in Spagna il medesimo programma – finanziato stavolta dalle singole Regioni spagnole -  si applica alle scuole primarie; la Gran Bretagna prevede  MBA, mentre noi non li prevediamo. Il programma Fulbright ha però uno zoccolo duro uguale per tutti, che costituisce parte fondamentale della sua forza e della sua stabilità: ciò accade per dare l’uniformità che ne garantisca l’equipollenza verso l’alto, ma anche per evitare eventuali politicizzazione del Programma.

Quando nacque il programma Fulbright le distanze culturali erano più ampie e le forme di comunicazione incomparabili a quelle di oggi. Chiediamo a lei, che la conosce bene e lavora a stretto contatto con le istituzioni che la rappresentano: oggi, in Italia, l’immagine dell’America soffre ancora l’influenza di alcuni vecchi stereotipi?

Posso dirle che alcuni ragazzi americani venuti qui in Italia hanno sperimentato un po’ di antiamericanismo. Noi li prepariamo anche su questo: molti di loro, specialmente quelli più giovani, escono per la prima volta dal loro Paese e solo quando ne sono fuori  si rendono conto dell’influenza che esso ha nel mondo. L’ufficio dei Public Affairs dell’Ambasciata Americana a Roma svolge bene il suo ruolo di rappresentanza delle istanze e del messaggio statunitensi, e di ascolto dei feedback che da essi arrivano. Il programma Fulbright è dedicato anche a a questo, e proprio la sua uniformità nel tempo ne fa una garanzia di qualità ed un esempio di grande livello. Certo, lo stereotipo esiste, dovuto principalmente all’ ignoranza: spesso è un pregiudizio poco ragionato e argomentato, più di pancia e di abitudine. Per questo è importante per i nostri ragazzi sperimentare la società americana per un periodo di tempo sufficiente a conoscerla, senza rigidi schemi mentali: è questo che mosse il Senatore Fulbright e ancora oggi funziona ed è parte fondamentale nell’impulso al miglioramento delle relazioni tra gli Stati Uniti e altri Paesi, tra i quali il nostro.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:09