Israele cerca un vero leader, ma non lo trova

Le elezioni che si sono tenute per la 19esima Knesset sono state percepite le più scontate, e noiose, della storia d’Israele, con una campagna elettorale sostanzialmente fiacca. La sorpresa è invece arrivata con un buon risultato di “Yesh Atid” (C’è futuro) di Yair Lapid, che è il vincitore mediatico della contesa. Mentre toccherà a Netanyahu, come previsto, formare l’esecutivo, e l’unico dato incerto riguarda le percentuali e la composizione del governo che sarà chiamato a comporre dopo lo spoglio delle ultime schede. È lecito pensare che sua politica non cambierà, che continuerà a ristagnare com’è accaduto durante le sue due esperienze governative, nelle quali si è distinto per la sua inoperosità e inerzia emblematicamente rappresentata dalla gestione della crisi a Gaza e dalla mancanza di una volontà chiara e precisa sulla strategia da adottare.

Inoltre, per rincarare la dose, durante la sua presidenza Israele si è alienata parte del sostegno internazionale, soprattutto europeo, ha visto sia Fatah sia Hamas rafforzarsi agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e in un’ultima analisi uno stallo sia sui negoziati con i palestinesi, sia sulla questione iraniana. Questo grande immobilismo non è altro che lo specchio di un paese politicamente in crisi, e sempre più spaccato. Nella breve ma tormentata storia dello Stato ebraico appare, anche agli occhi di un osservatore non troppo attento, una vitalità ed effervescenza politica appassionante, con numerosi e validi uomini e donne preparati a sostituirne altri a corto d’iniziativa. Esempi molto indicativi furono Begin nella seconda metà degli anni Settanta, nei primi Novanta Rabin e nei primi Duemila Sharon, tre abili statisti pronti a cogliere i fallimenti dei propri avversarsi per proporre soluzioni alternative e una diversa gestione del potere e del conflitto.

È indubbio che non sia sufficiente un leader carismatico per dare una svolta e perseguire obiettivi ambizioni, ma in tutti gli importanti episodi della storia d’Israele, un personaggio di grande prestigio li ha incarnati, e rappresentati. Ogni svolta storica è stata percepita attraverso autorevoli volti, che, nel bene e nel male, sono passati alla storia per i loro atti. Oggi, nel 2013 viene da chiedersi dove siano i leader d’Israele. La risposta è molto semplice: non ci sono. Israele vive una decadenza della propria leadership senza precedenti. L’ictus che ha strappato Ariel Sharon dalla scena politica nel 2006, ha privato il suo paese dell’ultimo leader degno di poter essere considerato tale e da allora nessuno è riuscito a incarnare le caratteristiche necessarie per apparire agli occhi dell’elettorato forte e affidabile. Due qualità, queste ultime, inscindibili in tutti gli uomini che seppero fare scelte che hanno inciso la storia dello Stato ebraico. L’opposizione attuale fluttua fra semi-personaggi e lotte interne, senza alcuno in grado di unire le varie anime del Paese o capace di sviluppare programmi credibili e di mostrarsi all’altezza di fronte all’elettorato.

Tzipi Livni, che qualche anno fa sembrava il primo candidato della sinistra e che qualcuno osò paragonare a Golda Meir, annaspa nella confusione della sinistra e in questi anni di governo del Likud non ha saputo mantenersi adeguatamente alla guida del partito ereditato da Sharon, mostrando poca lungimiranza politica e incapacità di fare opposizione, e tutti gli altri si macchiano del peccato dell’estremismo o dell’irrazionalità, o di entrambi. Un simile scenario, scorante in qualsiasi realtà politica, in Israele assume una forma inquietante poiché di certo lo Stato ebraico non può permettersi di questi tempi una mancanza simile. La sua posizione internazionale ha subito pesantissime ricadute con il riconoscimento a valanga della Palestina all’Onu, e con il deterioramento dei rapporti con alleati storici come la Turchia.

Le preoccupanti incognite dell’Africa settentrionale e della Siria e L’Iran che persegue nella sua ferma volontà di ruolo guida nella lotta contro “L’Entità Sionista” e verosimilmente lavora per ottenere armi nucleari sono minacce terribilmente reali, e vicine. All’interno dei propri confini i problemi non sono certo trascurabili, e mentre il tasso demografico, lentamente ma ininterrottamente, rischia di scardinare i fragili equilibri su cui si regge la complessità della società israeliana, i gruppi estremisti e religiosi si moltiplicano e promettono dura battaglia alla moderazione e laicità. Di fronte a tutto ciò, Israele si trova a votare un personaggio come Netanyahu, dopo averlo già sperimentato per due mandati in cui, onore alla coerenza, ha fondamentalmente deluso le aspettative interne e internazionali, seppur con alcuni risultati di importante impatto mediatico come la liberazione di Shalit. Il bilancio non è certo sufficiente per chi si deve gestire una delle aree maggiormente intricate del pianeta. 

Leggendo queste righe, probabilmente, un elettore o un analista israeliani aprirebbero le braccia in segno di rassegnazione e direbbero con un sospiro: ”Ma di meglio non c’è”. Disgraziatamente avrebbero ragione.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:37