Si faccia luce sulla tragedia di Bengasi

C’è un po’ di luce sui fatti di Bengasi dell’11 settembre scorso. Ma non molta. E non in grado di far male ad alcuno. Sono ormai passati quasi quattro mesi da quando l’ambasciatore statunitense in Libia, Chris Stevens e tre uomini del suo staff, Sean Smith, e i Navy Seals Glen Doherty e Tyrone Woods sono stati assassinati dai terroristi. Ieri, a Washington, una commissione indipendente, guidata dall’ex comandante degli Stati Maggiori Riuniti, l’ammiraglio Mike Mullen e dall’ambasciatore in pensione Thomas Pickering, ha pubblicato un rapporto ufficiale. Da cui si evince che la responsabilità per la morte dei quattro americani ricade, oltre che sui loro assassini, anche sul Dipartimento di Stato e su due suoi uffici in particolare, quello per Sicurezza Diplomatica e quello per il Medio Oriente, colpevoli di non averli protetti. Tuttavia, né Hillary Clinton, né alcun altro funzionario siedono “sul banco degli imputati”. L’Accountability Review Board (questo il nome della commissione) ritiene che nessuno, in particolare, abbia violato i suoi ordini o agito non rispettando le procedure corrette. Quindi, nell’immediato, non sono previste azioni disciplinari. Ma in futuro sì. Perché gli errori commessi dal Dipartimento di Stato consistono in una «Sistematica carenza di leadership e di gestione» della crisi, che è «risultata in un’inadeguata sicurezza della Missione Speciale a Bengasi, non sufficiente a far fronte all’attacco subito». L’indagine andrà avanti e resterà una mina vagante per molti. Prima di tutto per gli alti funzionari del Dipartimento di Stato.

In soldoni: il ministero degli esteri statunitense è accusato di non aver fatto abbastanza per proteggere il Consolato di Bengasi. Mentre il rapporto giunge alla conclusione che, una volta iniziato, l’attacco terroristico non si potesse più fermare con le forze a disposizione. Assolti, anzi elogiati, i pochi uomini presenti sul campo: hanno fatto tutto il possibile per difendere, anche a costo della loro vita, l’incolumità del personale diplomatico. Assolti anche i militari, che non avrebbero potuto intervenire in tempo per salvare il salvabile. Incriminata, invece, la sicurezza fornita dai libici: sia le milizie armate che le guardie private si sarebbero rivelate assolutamente inaffidabili al momento del pericolo. Di esercito libico o di una polizia regolare non si può parlare… perché non ci sono. A maggior ragione, in luogo del mondo ancora privo di ordine e di forze per farlo rispettare, si sarebbe dovuto provvedere ad una sicurezza eccezionale.

Prima dell’attacco si sarebbe potuto fare di più? Sì e proprio per questo motivo, il rapporto elenca 29 provvedimenti da prendere per evitare il ripetersi di tragedie simili. La raccomandazione si traduce in un unico impegno, sottoposto all’attenzione del Congresso: ci vogliono più soldi. Perché i tagli che hanno preceduto l’attacco dell’11 settembre sono una causa rilevante della mancanza di personale di sicurezza. La commissione di inchiesta ritiene che non vi fossero specifici segnali di allarme di attacco terroristico imminente. Tuttavia rileva (come era già evidente) che la situazione fosse già tesa e che vi fossero già stati episodi di violenza contro il personale diplomatico di altri Paesi occidentali in Libia. Inoltre, lo stesso Consolato americano di Bengasi aveva già mandato richieste di aiuto. Che sono state disattese dal Dipartimento di Stato.

Il rapporto non mette la parola “fine” alla vicenda di Bengasi. Una versione pubblica è sotto gli occhi di tutti. Ma una versione segreta, con molti dettagli in più, è stata inoltrata ieri al Congresso. Sempre ieri si è tenuto un incontro a porte chiuse fra il comitato di inchiesta e le comitati per gli Affari Esteri di Camera e Senato. Oggi invece toccherà ai sottosegretari William Burns e Thomas Nides comparire di fronte agli stessi comitati in un incontro pubblico.

La segretaria di Stato, sollevata dal rapporto di ogni responsabilità diretta, per ora può solo tirare un sospiro di sollievo, ringraziare (come ha già fatto) la commissione di inchiesta e scaricare sul Congresso la colpa del sotto-finanziamento della sicurezza del personale diplomatico.

Ci sarà ancora molto da discutere. Prima di tutto sulle responsabilità politiche dell’amministrazione. Dal rapporto (pubblico) si apprende, infatti, che l’attacco terroristico non è stato affatto preceduto da una manifestazione spontanea contro un video amatoriale su Maometto. Si è trattato di un attacco ben organizzato, puro e semplice, non della degenerazione di un moto di piazza. La natura dell’assalto, per altro, risulta essere stata nota all’intelligence sin dai primi giorni. Perché, allora, per due settimane, l’amministrazione ha continuato ad attribuire tutte le colpe al video su Maometto, identificandolo come la causa della inesistente “rivolta”? A questa domanda, solo Barack Obama e Hillary Clinton possono rispondere. Mentre, finora, ci è andata di mezzo solo Susan Rice, ambasciatrice all’Onu, che ha l’unica colpa di aver dato, per prima, questa versione dei fatti.

Restano poi senza risposta tutte le domande che lo storico militare Victor Davis Hanson si era posto, in un articolo sulla National Review, il 20 novembre scorso. E riguardano tutte le responsabilità dirette dell’amministrazione Obama. Primo: perché la sicurezza era così debole proprio nella pericolosa Bengasi? In sette ore di attacco terroristico non era proprio possibile intervenire con mezzi militari in soccorso ad una sede diplomatica assediata? Perché lasciare aperto un consolato a Bengasi, quando altri Paesi avevano ritirato il loro personale persino dalla stessa Tripoli (la capitale libica)? L’attacco a Bengasi è connesso in qualche modo con le dimissioni di Petraeus, presentate, ufficialmente, solo a causa di uno scandalo sessuale? Perché l’ex direttore della Cia si è dimesso solo dopo le elezioni? Infine, ma non da ultimo, lo storico Davis Hanson si chiede: a cosa porterà tutto ciò? E conclude: «Penso: a nulla. Contrariamente ai casi Watergate (contro Nixon) e Iran-Contra (contro Reagan), la stampa investigativa non è all’opera, vista la preoccupazione dei media a non danneggiare il secondo mandato dell’amministrazione».

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:11