Assad perde terreno. Dopo di lui Al Qaeda?

Che i ribelli siriani potessero vincere la guerra civile contro il dittatore Bashar al Assad è sempre stata un’ipotesi. Era meno probabile fino all’estate scorsa, ma è diventata sempre più concreta dopo l’inizio della battaglia per il controllo di Aleppo. Ma oggi, da ipotesi che era, sta diventando una realtà. Due notizie lo indicherebbero: il riconoscimento del fronte unito degli oppositori da parte degli Stati Uniti e le dichiarazioni del viceministro degli Esteri russo, Michail Bogdanov, che “non esclude” la vittoria dei ribelli.

Barack Obama, come nel caso della Libia, ha prima atteso che tutti gli alleati e i Paesi coinvolti a livello regionale dessero il loro ufficiale riconoscimento al nuovo governo. La Coalizione Nazionale delle Forze di Opposizione e Rivoluzionarie della Siria, questo è il lungo nome dell’organizzazione-ombrello dei ribelli, ha già ricevuto l’endorsement di: Francia, Regno Unito, Unione Europea, Turchia e Consiglio per la Cooperazione nel Golfo. Dunque, gli Stati Uniti hanno dato il loro assenso finale ad un’operazione già quasi del tutto conclusa: il disconoscimento della legittimità del regime di Bashar al Assad e il riconoscimento di un governo alternativo al dittatore. Il regime change, sulla carta, c’è già stato. Ora si deve solo metterlo in pratica.

Come? Fino a questo momento un intervento militare diretto è stato tassativamente escluso, sia dalla Nato che dagli Stati Uniti. Il dispiegamento di missili anti-missile Patriot Pac-3 in Turchia non è necessariamente un preludio ad un’azione armata, come invece sostiene la stampa governativa di Damasco. Al contrario, potrebbero essere l’unica reale garanzia per la neutralità turca. I Patriot sono sicuramente un utile strumento per parare eventuali minacce missilistiche. Non certo un’arma offensiva. I recenti sconfinamenti, i bombardamenti di artiglieria oltre il confine e, prima ancora, l’abbattimento di un F4 turco in ricognizione, giustificano il loro schieramento: sono tutti sintomi di un eventuale coinvolgimento (suo malgrado) della Turchia nel conflitto. Per di più, la settimana scorsa, è aumentata l’allerta per un possibile uso di armi chimiche da parte del regime di Assad. Attualmente questa allerta è parzialmente rientrata, ma il rischio di escalation rimane: ieri, secondo notizie non ancora confermate, i lealisti avrebbero lanciato anche dei missili Scud contro i ribelli, non lontano dalla frontiera turca. Inoltre, sempre stando a fonti dell’opposizione, l’esercito regolare avrebbe iniziato a impiegare anche armi meno convenzionali: bombe incendiarie, probabilmente anche napalm e fosforo bianco. I Patriot, dunque, saranno indispensabili per far sì che questi attacchi non sconfinino in Turchia, provocando perdite inaccettabili. Cosa (quella sì) che potrebbe provocare un intervento militare.

È ancora molto più ragionevole pensare che il regime change avverrà (se avverrà) solo dall’interno. I ribelli già godono del sostegno di Arabia Saudita, Giordania, Qatar e Turchia, da cui ricevono finanziamenti e armi. Probabilmente, attraverso canali più segreti, le hanno ricevute indirettamente anche da Francia e Gran Bretagna. Da quando il governo insurrezionale è stato riconosciuto ufficialmente, il sostegno militare potrebbe diventare esplicito: non si tratterebbe più di sostenere una banda di irregolari all’interno di uno Stato sovrano, ma di fornire armi al legittimo governo siriano contro un dittatore che, ormai, è equiparato a un terrorista.

Fino a ieri, il regime di Bashar al Assad poteva contare soprattutto su un grande protettore, che poteva stoppare tutte le mosse dei suoi nemici: la Russia. Ma le dichiarazioni di Bogdanov suonano come un netto voltafaccia di Mosca, nascosto dietro a un riconoscimento del fatto compiuto. «Si deve guardare in faccia alla realtà – ha dichiarato il viceministro russo – Sfortunatamente la vittoria dell’opposizione siriana non può essere esclusa», perché «Il governo siriano sta perdendo sempre più terreno». In caso di sconfitta di Damasco, stando a quanto dichiara lo stesso Bogdanov, la Russia sta preparando piani di evacuazione dei suoi cittadini dalla Siria. Tuttavia restano alcuni punti fermi della politica russa. Resta, prima di tutto, la base navale di Latakia, l’unica al di fuori dei confini dell’ex Unione Sovietica. Dunque, in caso di azione militare della Nato in Siria, scoppierebbe un putiferio: vi sarebbe una prima possibilità di scontro diretto fra russi e alleati dalla fine della Guerra Fredda (motivo in più per credere che la Nato non interverrà direttamente). Inoltre resta la volontà di continuare a cercare una soluzione politica del conflitto civile siriano. Bogdanov ha rinnovato, infatti, il sostegno del Cremlino alla mediazione dell’inviato dell’Onu Lakhdar Brahimi. Un’uscita pacifica dal conflitto, come quella proposta dalle Nazioni Unite, però, consiste in un qualcosa di ormai impossibile: un graduale passaggio di consegne da Assad a un governo di transizione, che nessuna delle due parti in guerra è più in grado di accettare.

Alla fine, quindi, il finale ormai più plausibile è una vittoria dei ribelli e una cacciata cruenta del regime di Assad. Ma qual è il volto del possibile vincitore? Barack Obama ha riconosciuto il governo dell’opposizione, ma non tutte le sue fazioni. Ha infatti escluso tassativamente ogni sostegno alle brigate di Al Nusrah, legate ad Al Qaeda ed inserite, nei giorni scorsi, nella lista nera delle organizzazioni terroriste del Dipartimento di Stato. Il problema, però, è riuscire a distinguere le mele marce dal cesto in cui si trovano. Perché, finché ci sarà guerra, agli oppositori più “presentabili” converrà tenersi buoni i miliziani di Al Nusrah che, secondo alcuni rapporti, sono ormai il nerbo delle forze ribelli. Una fonte di prima mano, Jacques Beres, cofondatore di Medici Senza Frontiere, afferma che almeno la metà dei ribelli curati ad Aleppo siano proprio jihadisti. E combattano per l’instaurazione di un regime islamico, prima ancora che per la cacciata di Assad. Tra l’altro, proprio la condanna statunitense ad Al Nusrah ha provocato una protesta corale di altre 100 organizzazioni ribelli. “Siamo tutti al Nusrah”, dicono gli insorti. E se lo fossero realmente? Siamo pronti a consegnare un altro Paese ad Al Qaeda?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:02