L’Egitto è ancora in rivolta

Ieri è stata una giornata di nuovi e gravi disordini in Egitto. I manifestanti contro il presidente islamico Mohammed Morsi e i suoi sostenitori hanno indetto altre proteste di massa al Cairo. L’esercito, sinora, si è tenuto in disparte, ma ha ricevuto da Morsi l’autorizzazione ad arrestare i manifestanti. Le truppe hanno costruito solide barriere attorno al palazzo presidenziale. Un intervento militare può scattare da un momento all’altro (o essere già scattato, nel momento in cui questo giornale va in edicola). Ma fino a ieri, almeno, le forze armate egiziane si sono tenute ben al di fuori dello scontro politico in atto. Il loro unico comunicato, che esprime la posizione ufficiale dello stato maggiore, si limita ad affermare che “non permetteranno” al Paese di scivolare nel caos. È noto che l’esercito esprime posizioni laiche. Fino all’estate scorsa, infatti, si temeva un vero e proprio golpe contro il presidente islamico. Quindi, il “non permettere” che l’Egitto scivoli nel caos, può anche voler dire: rimuovere il capo dello Stato prima che sia troppo tardi. Possibile? Sì, ma altamente improbabile. Perché l’esercito, da solo, ha le mani legate. Senza il sostegno diretto degli Stati Uniti (che lo riforniscono di tutto il necessario) difficilmente potrebbe prendere iniziative. E da Washington sono arrivati segnali molto chiari a favore del vincitore delle prime libere elezioni presidenziali: Mohammed Morsi.

Mentre l’esercito sta alla finestra, lo scontro politico si aggrava. È solo una minoranza che vuole rovesciare Morsi. Il Fronte di Salvezza Nazionale, che si fa portavoce dell’opposizione in piazza, chiede qualcosa di molto più modesto: revocare definitivamente il decreto del 22 novembre (che conferiva al presidente poteri straordinari temporanei) e rinviare il referendum sull’approvazione della nuova Costituzione. La prima condizione è già stata parzialmente soddisfatta: Morsi ha rinunciato a gran parte dei poteri del decreto, anche perché, finiti i lavori dell’Assemblea Costituente, non servivano più. Sul referendum costituzionale, invece, il presidente sembra non voler scendere a compromessi: si terrà il 15 dicembre, fra appena tre giorni. Questo rifiuto sul rinvio della consultazione popolare, su una Costituzione approvata dai soli partiti islamici, è il vero nodo della questione. Ma anche dovesse essere rimandato di alcuni mesi, cosa si risolverebbe? I manifestanti anti-Morsi rappresentano una maggioranza? Da decenni (non dalla rivoluzione contro Mubarak, né dalla vittoria di Morsi) la società egiziana si è gradualmente islamizzata. Un referendum per l’approvazione della Costituzione, largamente improntata sui principi della legge coranica, potrebbe comunque essere vinto dai sostenitori di Morsi. Sono i numeri a suggerirlo: basta vedere le maggioranze oceaniche vinte da Fratelli Musulmani e salafiti nelle ultime elezioni. Le manifestazioni di questi giorni suggeriscono, piuttosto, un altro scenario: una minoranza (laica, cristiana, democratica, nazionalista, musulmana moderata) non accetterà il nuovo ordine. L’Egitto sarà un Paese profondamente spaccato al suo interno.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:39