Il governo riconosce la Palestina. Perchè?

L’Italia che vota “sì” al riconoscimento della Palestina. E chi l’aveva mai detto che un governo di “tecnici” non prendesse decisioni strategiche sulla politica internazionale? L’ha presa eccome. La prima reazione internazionale è quella di giubilo della rappresentanza palestinese a Roma. A cui segue, subito dopo, quella di profondo sconforto dell’ambasciatore israeliano in Italia, Naor Gilon: «Siamo molto delusi dalla decisione dell’Italia, uno dei migliori amici di Israele, di sostenere l’iniziativa unilaterale dei palestinesi alle Nazioni Unite – ha dichiarato il diplomatico - tale iniziativa indebolisce le relazioni tra israeliani e palestinesi fondate sugli Accordi di Oslo». Infatti, come spiega Gilon: «Dopo quattro anni in cui i palestinesi hanno rifiutato di tornare al tavolo negoziale, assistiamo ora al tentativo palestinese di influenzare i risultati dei negoziati stessi per mezzo di istituzioni internazionali. Questa mossa, non soltanto non migliorerà la situazione sul terreno, ma aumenterà le preoccupazioni di un ritorno alla violenza e, soprattutto, allontanerà le prospettive di pace».

Eppure, se leggiamo le ragioni del “sì” italiano, troviamo proprio tutti i capisaldi e le parole d’ordine dell’infinito “processo di pace”. La presa di posizione di Mario Monti, stando a quanto si legge in una nota rilasciata ieri da Palazzo Chigi: «…non implica alcun allontanamento dalla forte e tradizionale amicizia nei confronti di Israele». «Tale decisione - si legge nella nota - è parte integrante dell’impegno del Governo italiano volto a rilanciare il Processo di Pace con l’obiettivo di due Stati, quello israeliano e quello palestinese, che possano vivere fianco a fianco, in pace, sicurezza e mutuo riconoscimento».

Questo in teoria. Ma dove sono “pace, sicurezza e mutuo riconoscimento”? Non si può dimenticare che, a Gaza, è appena finito (o meglio: è appena stato sospeso da una tregua) un conflitto durato otto giorni e provocato da continui lanci di razzi di Hamas su città israeliane. Decidere di riconoscere la Palestina proprio in un momento come questo, dunque, per lo meno non è una gran dimostrazione di tatto diplomatico nei confronti di Israele. Perché sembrerebbe proprio un premio, in sede Onu, a chi aggredisce lo Stato ebraico. Hamas non è l’Autorità Palestinese (Anp), si dirà. E un riconoscimento internazionale dell’Anp, che governa sulla sola Cisgiordania, potrebbe addirittura isolare Hamas e premiare gli sforzi negoziali (che non ci sono) dell’autorità di Ramallah. «In coordinamento con altri partner europei, ha in parallelo chiesto al Presidente Abbas di accettare - si legge nella nota di Palazzo Chigi - il riavvio immediato dei negoziati di pace senza precondizioni». In un mondo ideale andrebbe così. Ma nel mondo reale, che cosa ha mai fatto l’Anp, in tutti questi anni, per fermare, o almeno scoraggiare, i continui atti di terrorismo e la costante pioggia di razzi lanciati da Hamas? Assolutamente nulla. Anzi: condannando ufficialmente la risposta militare israeliana, l’Anp ha finito per giocare il ruolo di portavoce del regime islamico di Gaza, nonostante il conflitto fra Fatah (al governo, a Ramallah) e Hamas. Nell’aprile scorso, è stata l’autorità di Ramallah a chiedere alla Corte Penale Internazionale di aprire una procedura contro Israele (non contro Hamas) per l’Operazione Piombo Fuso del 2008-2009. In quest’ultimo conflitto, l’Anp si è astenuta dal combattere Israele. Ufficialmente. Ma chi è stato il primo a rivendicare l’attentato a un autobus di Tel Aviv, una settimana fa, proprio nel giorno in cui si discuteva la tregua a Gaza? Non Hamas, bensì le Brigate Martiri di Al Aqsa, che sono emanazione di Fatah. Dunque del partito al potere nell’Anp. Vatti a fidare… Cosa sta facendo l’Anp per rafforzare la tregua a Gaza? Sta tornando a ventilare (sempre informalmente) l’ipotesi di riportare il caso dei “crimini israeliani” a cospetto della Corte Penale Internazionale. Finora non lo poteva fare perché l’Anp era “entità” e non “Stato”. Ed è questo il motivo del fallimento del suo primo tentativo, fatto lo scorso aprile. In qualità di “Stato osservatore” all’Onu, invece, lo potrebbe fare. Il governo italiano è consapevole che il riconoscimento palestinese possa essere usato strumentalmente, proprio in questo modo. E dunque, Roma chiede a Ramallah: «di astenersi dall’utilizzare l’odierno voto dell’Assemblea Generale per ottenere l’accesso ad altre Agenzie Specializzate per adire la Corte Penale Internazionale o per farne un uso retroattivo». L’Anp ha promesso di astenersi. Per ora. Ma i “crimini” a Gaza interessano meno, nell’immediato. Il problema si ripresenterà nei prossimi mesi, piuttosto, quando Ramallah cercherà di dimostrare al mondo la sua teoria della cospirazione per eccellenza: quella secondo cui sarebbero stati gli Israeliani (e non una malattia o qualcun altro) ad uccidere Yassir Arafat. In quel caso, allora, stando agli stessi palestinesi che stanno conducendo le indagini, la Palestina potrebbe far ricorso alla Corte dell’Aia. E chi potrebbe impedirglielo, a quel punto?

Se non ci sono garanzie per un ritorno al processo di pace, né ci saranno più possibilità di impedire un uso strumentale del nuovo status palestinese all’Onu, perché il governo Monti è stato così deciso a dare il suo assenso al riconoscimento della Palestina? È l’Europa che ha fatto pressioni? Non si direbbe, considerando che, nel momento in cui il governo italiano dichiarava la sua scelta, solo Francia, Spagna, Irlanda, Grecia, Danimarca, Svizzera e Islanda (le ultime due non sono nemmeno membri dell’Ue) avevano preannunciato il voto positivo. La Germania, dopo aver dichiarato il “no”, si era riposizionata sull’astensione, così come Regno Unito, Olanda e Repubblica Ceca. Il voto italiano non è stato condizionato neppure dagli Stati Uniti di Barack Obama, che hanno sempre manifestato apertamente la loro contrarietà. Quella italiana, dunque, non è una scelta indotta, ma una presa di posizione assolutamente autonoma. In un momento in cui i mass media e l’opinione pubblica italiana continuano a guardare con favore alla Primavera Araba e credono fermamente che leader integralisti islamici (Morsi in Egitto e Gannouchi in Tunisia) siano dei pragmatici uomini di governo democratici, quando il futuro, secondo tutti gli analisti, è nella sponda Sud del Mediterraneo e non Israele (unica democrazia del Medio Oriente) il riconoscimento della Palestina diventa un “segno dei tempi”. Tempi violenti? Certamente. Ma lo scopriremo solo quando sarà troppo tardi.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:46