Catalogna: vincono gli indipendentisti

Prima di tutto: in Catalogna gli indipendentisti hanno vinto la maggioranza assoluta del parlamento catalano. Benché i titoli sulla stampa italiana dicano l’esatto opposto, queste elezioni amministrative hanno portato alla conquista di 87 seggi (su 135) da parte di formazioni politiche dichiaratamente favorevoli alla secessione della Catalogna dalla Spagna. Per essere precisi, Convergenzia i Uniò (CiU) ne ha 50, Esquerra Republicana de Catalunya (Erc) ne ha 21, Candidatures d’Unitat Popular (Cup) ne ha 3 e Iniciativa per Catalunya Verds (Icv) ne ha altri 13. Dunque, se la matematica non inganna, sono 87 parlamentari. E, se nemmeno la politica inganna, tutti questi partiti hanno votato a favore della Risoluzione 742 del 24 settembre scorso, che impegnava la nuova Giunta, uscita dalle prossime (dunque: queste) elezioni, a indire un referendum sull’indipendenza entro la fine della legislatura.

Il punto critico di questo discorso (ed è questa la causa dei titoli sui quotidiani italiani) è la perdita di consensi di Artur Mas, leader di CiU, che aveva 62 seggi ed oggi esce indebolito dopo averne persi 12. Siccome era Mas il principale proponente del referendum per l’indipendenza e aveva chiesto una chiara maggioranza al suo partito per indirlo, allora è forte la tentazione di affermare “l’indipendentismo ha perso” assieme a Mas. Non è così semplice, però. Perché, se CiU ha perso leggermente terreno, è anche vero che altri partiti indipendentisti lo hanno guadagnato: Erc ha conquistato 11 seggi in più, Icv ne ha presi 3 in più, il Cup, dopo i primi successi in precedenti elezioni municipali, ha corso per la prima volta ed è entrato in parlamento con tre deputati. Quindi, i partiti filo-indipendentisti (contando i 12 seggi persi da CiU) conquistano 5 seggi in più rispetto allo scorso parlamento.

Bisogna anche considerare perché i catalani abbiano deciso di scaricare Mas e votare altri partiti. Il leader del CiU si è detto indipendentista solo da quest’anno. Fino al 2011, infatti, era favorevole ad una maggiore autonomia, non alla secessione. Con la Spagna in piena crisi economica e un quinto della popolazione disoccupata, lo scenario è drasticamente cambiato e Artur Mas si è radicalizzato. L’opinione pubblica catalana ha dato chiarissimi segni di insofferenza, soprattutto con la grande manifestazione indipendentista di Barcellona dello scorso 11 settembre, a cui ha partecipato 1 milione e mezzo di cittadini. Tuttavia, mentre altri partiti (come l’Erc) vogliono fare il referendum entro il 2014, assieme alla Scozia, il CiU è più vago nella sua tabella di marcia e preme per una consultazione “entro la legislatura”, quindi nei prossimi 4 anni. Solo quest’anno il CiU si è messo alla prova del voto con un programma dichiaratamente secessionista e ha subito un calo di voti. Ma l’elettorato che ha perso è deluso perché Artur Mas è diventato troppo indipendentista? O perché lo è troppo poco? Ad una prima analisi del flusso di voto sembrerebbe più corretta la seconda ipotesi, considerando che quel che è stato perso dal CiU è stato guadagnato dall’Erc, quasi nella stessa misura. E, se mettiamo assieme tutti i partiti pro-secessione, come abbiamo visto, il risultato è addirittura positivo per gli indipendentisti. Altrettanto non si può dire per il Partito Popolare, la più unionista delle forze politiche: guadagnando un solo seggio, resta sostanzialmente stabile, non guadagna affatto elettori delusi dal CiU. Stesso discorso vale per il Partito Socialista (anch’esso pro-Madrid, anche se più federalista rispetto ai Popolari): perdendo 8 seggi dimostra che non è riuscito a fidelizzare elettori di sinistra che, evidentemente, hanno preferito la causa dell’indipendentismo.

L’altra difficoltà (che giustifica, almeno in parte, i titoli sulla stampa italiana) è di natura politica: i quattro partiti indipendentisti riusciranno a dialogare o a formare un governo di coalizione per chiedere il referendum? Una vittoria chiara del CiU avrebbe risolto il problema alla radice e spianato la strada ad un referendum, entro i prossimi 4 anni. Ora, invece, si deve aprire una fase negoziale difficile fra partiti che definire eterogenei è poco. Il CiU è un partito moderato, di centro-destra, formatosi dalla fusione di due formazioni, una liberale, il Cdc e l’altra conservatrice, l’Udc. La componente liberale prevale, considerando anche che lo stesso Artur Mas proviene dal Cdc, il partito ereditato da Jordi Pujol, storico leader che ha guidato la Catalogna per ben 23 anni (1980-2003) e tuttora in carica dopo essere stato rieletto nel 2010. Ed è proprio la componente liberale quella che preme di più per passare da un programma autonomista ad uno più smaccatamente indipendentista. In tempo di crisi economica, però, la vita è difficile per qualsiasi partito liberale e, in genere, per chiunque difenda il libero mercato. Questo spiega (oltre alla titubanza di appoggiare un referendum entro l’anno, come abbiamo visto), il motivo del perché molti indipendentisti abbiano scelto formazioni più di sinistra. Come l’Erc, storico partito nato ai tempi della Repubblica Spagnola del 1931, protagonista dell’indipendentismo ai tempi della Guerra Civile (1936-1939) e messo al bando ai tempi della dittatura di Francisco Franco che ne seguì (1939-1975): anche oggi mantiene intatta un’ideologia di sinistra democratica, la stessa che animò l’indipendentismo catalano ai tempi della Repubblica. Le due formazioni minori sono ancora più a sinistra e anti-capitaliste: il Cup è sostanzialmente una formazione marxista. E l’Icv è ecologista radicale. Le due anime della sinistra anti-globalizzazione, insomma.

Il programma del CiU e quello dei suoi potenziali interlocutori, sono il frutto di due modi diversi di intendere l’indipendenza. Il primo la vuole “da destra”: parte dall’assunto che la Catalogna è la regione più produttiva e ricca della Spagna e che da sola potrebbe fare molto meglio. Il secondo tipo di indipendentismo, al contrario, si basa ancora sulla novecentesca dottrina della “liberazione nazionale” (citata esplicitamente nel programma del Cup): non solo si intende raggiungere l’indipendenza nazionale da una potenza dominante (la Spagna, in questo caso), ma si vuole rendere il nuovo Stato autonomo anche rispetto al mercato internazionale. Tutti gli Stati sorti sulla base di questa dottrina, soprattutto nelle ex colonie extraeuropee, hanno adottato sistemi socialisti nazionali, proprio nel nome di un “progresso autonomo”, indipendente da multinazionali e finanza internazionale. Questi due modi di intendere la secessione sono pressoché incompatibili fra loro.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:49