Ue: non solo austerity e spesa

Il summit europeo per definire il bilancio comunitario è stato più difficile ancora rispetto alle previsioni. Inizialmente la Commissione aveva previsto di fissare un tetto massimo alla spesa pubblica comunitaria di 1025 miliardi di euro. Giovedì sera, il presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, aveva già abbassato il tetto a 973 miliardi di euro. Fra i tagli proposti nella soluzione di compromesso figuravano 11 miliardi dal fondo di coesione (per aiutare le regioni più povere d’Europa) e 7,7 dai fondi per l’agricoltura. Ma anche questa soluzione di compromesso non è servita ad arrivare a un accordo. Il summit è fallito. 

Se guardiamo alle cronache di queste due giornate, la colpa delle difficoltà viene attribuita al solo Regno Unito e al suo premier, David Cameron, che si è opposto a qualsiasi aumento della spesa pubblica comunitaria. Cameron ha minacciato il veto, in modo da congelare ogni futuro aumento delle spese, seguito dalle sole Svezia e Olanda.

Si può comprendere questa posizione guardando alla dicotomia “Paese contribuenti/beneficiari” della spesa pubblica. Come già vediamo su scala nazionale, anche a livello europeo si sta ripetendo la lotta fra i produttori e i consumatori di tasse. I Paesi che maggiormente contribuiscono al bilancio europeo sono, appunto, il Regno Unito, la Germania, la Francia e l’Italia. A questo punto, però, non si capisce perché la Francia e l’Italia siano favorevoli ad una politica di maggior spesa pubblica comunitaria (che peserebbe anche sulle nostre tasche), mentre solo Regno Unito e Germania si oppongono. E unicamente Londra minaccia il veto, mentre la Germania resta più possibilista. Il problema sul tavolo, dunque, è più politico che economico. Si contrappongono due visioni dell’Europa. Ad un estremo, abbiamo la Francia del socialista François Hollande, che mira ad una maggior unità politica dell’Europa per far funzionare un meccanismo di redistribuzione che tassa le nazioni ricche per sostenere quelle povere. Hollande, introducendo un’imposta del 75% ai redditi superiore al milione di euro anni, nel suo Paese sta dando l’esempio di come funziona il modello che vorrebbe imporre anche al resto dell’Ue. All’estremo opposto abbiamo il governo conservatore e liberale del Regno Unito che taglia la spesa pubblica in patria e vorrebbe che altrettanta austerità venisse seguita anche dal resto dell’Ue. Quale dei due modelli funziona di più? In teoria, dovrebbe essere sotto gli occhi di tutti: i ricchi francesi stanno portando via i capitali (e se stessi) per salvarsi dall’esproprio di Hollande. Anche un mito del cinema d’Oltralpe, come Gerard Depardieu, a quanto pare, sta preparandosi una via di fuga nel vicino Belgio. Il Regno Unito, al contrario, resta una delle principali piazze finanziarie del mondo e la principale in Europa.

A proposito di crisi, tutti i Paesi che attualmente stanno subendo la peggiore recessione (Grecia, Spagna e Portogallo… ma anche l’Italia) hanno una spesa pubblica fuori controllo. La Grecia non fa più testo: il suo Stato è già, tecnicamente, in bancarotta. Sopravvive solo grazie agli aiuti internazionali e a riforme estorte dai creditori. Al contrario, l’Irlanda, che è ricorsa maggiormente a politiche di “austerità” è uscita dalle pagine di cronaca nera economica.

Fra i Paesi che optano per l’austerità, c’è anche da distinguere fra chi alza le tasse e chi, invece, si concentra sui tagli della spesa pubblica. Il Portogallo e l’Italia, per esempio, sono “austeri”, ma solo nel senso che alzano le tasse, per continuare a finanziare una spesa pubblica che viene solo marginalmente tagliata. La Spagna sta iniziando a tagliare le spese, ma solo da quando al governo c’è il popolare Rajoy. L’Irlanda, al contrario, mantiene, sin dall’inizio della crisi, un fisco e una regolamentazione del mercato fra i più liberi del mondo. Ha ancora problemi, ma questi sono causati ancora dal suo indebitamento pubblico, contratto per cercare di salvare le sue banche in crisi. Quindi, ancora una volta: un problema di spesa pubblica. Più ancora dell’Irlanda, anche le repubbliche baltiche (Estonia, Lettonia e Lituania) hanno adottato una strategia di maggiori liberalizzazioni per uscire dalla crisi. E i risultati sono buoni, addirittura sorprendenti.

Guardando agli esempi nazionali, insomma, vediamo come sia palesemente lontana dalla realtà la contrapposizione austerità/spesa: dipende da cosa si intende per “austerità”. Se tassi di più i tuoi cittadini, restringi il campo della libera iniziativa, poi è evidente che nessuno abbia più i mezzi e le risorse per crescere. O anche solo per sopravvivere. Se invece riduci la spesa pubblica e lasci liberi i tuoi cittadini, hai più probabilità che almeno una parte di essi possa far ripartire l’economia.

Purtroppo sembra proprio che al summit europeo non siano giunti a queste conclusioni. David Cameron è stato accusato (dagli altri leader e dai media) di voler boicottare la crescita per ragioni egoistiche. Perché, nonostante tutte le prove dimostrino il contrario, c’è ancora la convinzione che più spesa pubblica (e dunque: più tasse) significhi necessariamente più crescita. Cameron si oppone a questa visione dell’economia e per questo, sia lui che i pochi governi europei che lo seguono, vengono giudicati come dei sabotatori. Vige ancora il dogma dello Stato sociale e dello Stato imprenditore: solo il governo può creare (dal nulla?) posti di lavoro, crescita e benessere. Un deputato europeo verde come Daniel Cohn Bendit arriva addirittura a credere (e dichiarare) che la ricchezza degli Usa sia dovuta unicamente alla crescita della sua spesa pubblica, dagli anni di Roosevelt in avanti. Dimenticando, volutamente, ferrovie, secolari innovazioni, grandi industrie e grandi flotte mercantili che hanno fatto grande l’America dal XIX Secolo, quando il governo federale era ancora ridotto ai minimi termini e non esisteva neppure una “spesa sociale”.

All’infuori dei conservatori britannici e di rari loro alleati, nessuno sembra voler vedere che c’è un’altra crescita possibile: quella della deregolamentazione, della detassazione, della libera circolazione di merci, capitali e servizi. Provvedimenti più liberali, come la direttiva Bolkestein del 2006, vengono annacquati e snaturati. I governi dell’Europa continentale preferiscono tenere i confini chiusi e, piuttosto, trasferire ricchezze da Stato a Stato, sempre a spese dei contribuenti. Vedere l’Europa come “un grande mercato aperto” diventa un insulto, puntualmente rivolto contro Cameron.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:50