Le città di Israele nel mirino di Hamas

Prima Tel Aviv, poi Gerusalemme. Hamas sta decisamente alzando il tiro e dando una dimostrazione della sua forza: dopo aver lanciato razzi sulla principale città di Israele, ieri ha tentato di colpire anche la sua capitale. Ignorando anche le possibili vittime arabe delle sue azioni, cerca di portare morte e distruzione in una città che la Palestina stessa considera sua capitale, che, per metà della sua popolazione, è araba ed è un luogo fondamentale per l’Islam e il Cristianesimo, oltre che per l’Ebraismo. Il razzo è caduto alle porte della metropoli, senza provocare danni o vittime, stando ai primi rapporti della polizia israeliana. Ma è comunque un segnale importante: nessuna città di Israele può ritenersi al riparo dalla minaccia. Oltre a Gerusalemme, Tel Aviv è sotto attacco da due giorni. Anche qui, nessun razzo è riuscito a provocare danni. Ma l’intento è chiaro: dimostrare la pericolosità delle armi nelle mani di Hamas (i razzi Fajr, di fabbricazione iraniana, che si aggiungono ai Grad e agli artigianali Qassam) e generare un senso di assoluta insicurezza nella popolazione israeliana, ovunque si trovi. È infatti la prima volta dal 1991 (dalla Guerra del Golfo) che a Tel Aviv suonano le sirene dell’allarme anti-aereo e la gente deve correre nei rifugi.

L’intenzione di Hamas è anche un’altra: provocare una reazione “sproporzionata” dell’esercito israeliano. Finora il governo Netanyahu ha deciso di rispondere solo con raid aerei mirati. Circa 350 obbiettivi militari (rampe e aree di lancio, depositi di razzi e munizioni) sono stati colpiti e il leader della branca militare di Hamas è stato ucciso dopo che l’intelligence ne aveva scoperto rifugio e movimenti. I morti palestinesi, però (20 dall’inizio dell’Operazione Pilastro della Difesa) stanno già inondando i media di tutto il mondo, provocando la reazione ostile dei Paesi arabi e l’indignazione dell’opinione pubblica occidentale. Come sempre, d’altronde. L’atteggiamento dell’Egitto è già estremamente preoccupante, da un punto di vista israeliano. Perché l’ambasciatore è stato richiamato e il premier del Cairo, Hisham Qandil, si è recato in visita a Gaza, proprio ieri, per portare la sua solidarietà alla popolazione. «Questa tragedia non può passare sotto silezio – ha dichiarato Qandil – il mondo deve assumersi la responsabilità di fermare l’aggressione (israeliana, ndr)». L’Egitto ha iniziato a far pressioni anche sugli Usa. Il ministro degli Esteri, Kamel Amr, ha chiesto al segretario di Stato Hillary Clinton: «Un intervento immediato per fermare l’aggressione israeliana». L’atteggiamento del governo egiziano è motivato da una questione di parentela ideologica. Il presidente Morsi e la maggioranza del governo sono espressione dei Fratelli Musulmani, il movimento che ha dato ispirazione a Hamas. Tuttavia, finora, quelle egiziane sono solo parole. Non c’è (ancora) alcun segno che indichi come l’Egitto si stia preparando ad una nuova guerra arabo-israeliana.

Ed anche la reazione dei Paesi occidentali è finora ufficialmente positiva per Israele, nonostante la campagna mediatica filo-palestinese stia ancora una volta infiammando l’opinione pubblica dalle nostre parti. Ben Rhodes, vice-consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti ha dichiarato che: «spetta a Hamas fermare l’escalation». E la responsabilità del movimento islamista è stata riconosciuta anche dai governi del Regno Unito e, successivamente, anche della Germania. Un problema più grave inizierebbe in seguito ad una reazione più vasta da parte dello Stato ebraico. Ed è possibile che scatti, da un momento all’altro. Il governo Netanyahu ha dichiarato, chiaro e tondo, che i razzi contro Tel Aviv non rimarranno impuniti. E, passando dalle parole ai fatti, è stata ordinata una mobilitazione di 30mila riservisti, di cui 16mila sono già sul piede di guerra da ieri. Potrebbe trattarsi solo di una dimostrazione di forza, di un’intimidazione. Ma il governo israeliano ha sempre dimostrato di far seguire i fatti alle parole, soprattutto se la sua capitale e la sua principale città sono sotto attacco. La stampa più ostile a Israele collega la determinazione di Benjamin Netanyahu alla sua vigilia elettorale. Ma quale governo reagirebbe diversamente, quando il Paese è colpito così in profondità? Anzi: lo stesso esecutivo Netanyahu (che è formato anche da Laburisti, fra cui il ministro della Difesa, Ehud Barak) ha finora tollerato uno stillicidio di razzi, lanciati da Gaza contro le città meridionali. Se ne contano 800 dall’inizio del 2012. Solo quando i tiri sono diventati un vero e proprio bombardamento, da mercoledì scorso, la reazione israeliana è diventata più forte. Ma cosa significherebbe un’operazione di terra, adesso? Sarebbe un notevole test per le relazioni internazionali, oltre che per l’esercito israeliano.

Da un punto di vista militare, è quasi certamente da escludere un’invasione di Gaza a tutto campo. Il governo israeliano non ha alcuna intenzione di occupare di nuovo la città e la striscia di territorio costiero che Sharon fece evacuare nel 2005. Quel che ci si può attendere, semmai, è una riedizione dell’Operazione Piombo Fuso: la conquista e la distruzione delle basi di Hamas. Questa volta il movimento armato islamista si è preparato meglio. Ha disseminato Gaza di trappole e ha predisposto una serie di tunnel e rifugi sotterranei che potrebbero rendere molto difficile un’operazione di terra, come dimostra la precedente esperienza di Hezbollah nella Seconda Guerra del Libano. Da un punto di vista politico, un’operazione di terra sarebbe ancor più pericolosa. Perché l’Egitto, che finora ha reagito solo a parole, potrebbe fare un passo in più e strappare il trattato di pace. Come Morsi stesso non ha escluso di fare, prima che venisse eletto presidente. Gli Usa sarebbero ancora così convinti di sostenere Israele anche contro l’Egitto, tuttora alleato-chiave di Washington nella regione? E, inoltre, quali conseguenze potrebbe avere una guerra a Gaza nella vicina Siria, considerando che i regolari siriani e gli israeliani si son già scambiati cannonate sul Golan? E l’Iran, che già fornisce i razzi a Hamas, non ne approfitterebbe per entrare nella mischia? Il dilemma di fronte al quale si trova il governo Netanyahu, dunque, è molto difficile da risolvere: lasciare che le principali città israeliane vengano bombardate, o intervenire con mano pesante, andando incontro ad una, quasi certa, catastrofe internazionale?

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:36