I sette principi che guideranno la Cina

La “democrazia” interna al Partito Comunista Cinese ha partorito un nuovo Comitato Permanente del Politburo. Che sarà ancor più autocratico del precedente, sia nel numero (7 membri invece che 9) che negli elementi che lo compongono, tutti conservatori e “principi” della rivoluzione maoista, dunque figli e nipoti di chi fece la Rivoluzione. Non si vede alcuna innovazione all’orizzonte. Tutto è all’insegna della continuità. Anche il sistema politico della Cina, come quello dell’Urss negli anni ’70 e ’80, potrebbe essere arrivato alla sua fase della “gerontocrazia”. Stupisce la precisione delle previsioni degli esperti. Da un anno a questa parte si diceva che sarebbe stato Xi Jinping a succedere a Hu Jintao alla massima carica della Repubblica Popolare. E così è puntualmente avvenuto. Si diceva anche che Li Kegiang sarebbe stato il nuovo premier, succedendo a Wen Jiabao. E anche qui: così è puntualmente avvenuto.

Questa totale assenza di sorprese dimostra che i risultati delle “elezioni” fossero predeterminati e preparati da tempo. Si è trattato di una successione a tutti gli effetti, come nelle famiglie dinastiche. Impressione rafforzata ancor di più dai rapporti di parentela personali dei nuovi membri del Comitato Permanente con gli alti papaveri del Partito. La riduzione del numero dei membri è stata giustificata con la necessità di una maggiore “unità del gruppo”. Di fatto si tratta di una misura per centralizzare ulteriormente il controllo in poche mani, evitando “pericolosi deviazionismi di sinistra” e “opportunismi di destra”, come vuole la tradizione marxista-leninista. Gli elementi più riformatori del Partito (“opportunisti di destra”) sono stati scientemente esclusi dal Comitato Permanente. E anche il più esagitato “deviazionista di sinistra”, Bo Xilai, è stato cacciato con disonore dal Partito, sua moglie processata e condannata a morte (sentenza sospesa) e il suo fido capo della polizia Wang Lijun condannato a 15 anni di carcere. I nuovi leader non hanno altro orizzonte ideologico che il marxismo ortodosso e nessuna concreta esperienza al di fuori del Partito.

Xi Jinping è figlio di Xi Zhongzun, veterano della Guerra Civile Cinese (1927-1949) in cui combatté al fianco di Mao Tse-tung. Il celebre padre amministrò la regione di Yanan e il suo ruolo fu determinante nel salvare l’Armata Rossa nell’ultima fase della grande ritirata del 1935 (la Lunga Marcia) che avrebbe potuto condurre al suo annientamento. Epurato comunque durante la Rivoluzione Culturale (1966-1976), fu riabilitato dal successivo regime di Deng Xiaoping. Il figlio Xi Jinping non ha altrettanta storia. Ma ha ereditato dal padre il “sangue blu” rivoluzionario ed anche lui (come quasi tutti gli attuali vertici del Partito) ha patito l’esilio interno a causa delle epurazioni della Rivoluzione Culturale. Come da tradizione leninista, il nuovo leader è sia un tecnico che un “teologo” del marxismo, perché si è laureato in ingegneria chimica all’università di Pechino e successivamente ha conseguito un dottorato in teoria marxista. Ha dunque la perfetta impostazione culturale per pianificare l’economia e la società cinesi. Per lo mano ha potuto toccare con mano la realtà del lontano Occidente in una breve esperienza del 1985, quando fu ospitato in una fattoria dell’Iowa. La provincia di cui era funzionario, lo Hebei, era gemellata con lo stato del MidWest americano perché entrambe erano accomunate dall’allevamento dei suini.

È però difficile trovare traccia di questo contatto occidentale nella successiva ascesa di Xi ai vertici della Cina: essendo capo della scuola del Partito, ha insegnato la moralità del marxismo-leninismo più ortodosso alle nuove generazioni dei comunisti. Tutta la sua carriera è interna al Partito: prima a capo della sezione della provincia di Fujan, poi in quella del Zhejiang e infine capo del Partito a Shanghai, dove dovette sostituire una classe dirigente corrotta. Non è un caso che (pur dopo l’epurazione del “giustizialista” Bo Xilai) Xi insista sulla moralità e sulla disciplina interna alla struttura di potere cinese. La protesta contro la corruzione dilaga fra la popolazione e i comunisti sono dunque costretti a dare una risposta, sia pure limitata e formale. Prossime epurazioni e condanne plateali saranno molto probabili. Xi Jinping ha ottimi rapporti con i vertici militari ed ha assunto, da subito, l’incarico di dirigere la Commissione Militare Centrale. Se in questi mesi abbiamo assistito ad una politica estera cinese molto muscolare, è probabile che in futuro la vedremo continuare.

Li Kegiang, il prossimo premier cinese, essendo figlio di un funzionario rurale, ha un ascendente meno “nobile” rispetto a quello di Xi Jinping. Laureato in legge, vanta anche una conoscenza più approfondita del sistema occidentale (anglo-sassone nello specifico) avendo tradotto in cinese “Il giusto processo” di Lord Denning, famoso giurista britannico. Anche la sua carriera, comunque, è tutta interna al Partito. Prima è stato discepolo di Hu Jintao (il presidente uscente) nella Lega della Gioventù Comunista, poi è diventato capo del Pcc nelle province del Liaoning e infine dello Henan, entrando a far parte del Comitato Permanente nel 2007. Fino ad ora gli esperti lo considerano un “cauto riformatore”. Ora, però, occorrerà vederlo all’opera. Non hanno nulla di sia pur vagamente “riformatore”, invece, altri tre uomini del nuovo vertice: Zhang Dejiang, Yu Zhengsheng e Liu Yunshan. Il primo ha ricevuto la sua educazione, non in Cina, bensì in Corea del Nord, il “regno eremita” stalinista, custode della più ortodossa tradizione marxista-leninista.

Cresciuto sotto l’ala protettiva dell’ex presidente Jiang Zemin, ha compiuto tutta la sua carriera, passando illeso attraverso lo scandalo dell’epidemia della Sars (dilagata nella regione del Guangdong, di sua competenza) nel 2003. Yu Zhengsheng, altro “principe rosso” purosangue, è cresciuto sotto l’ala protettiva di Deng. Ed è uscito illeso persino da uno scandalo internazionale, quando suo fratello, nel 1985, defezionò negli Usa. Chiunque altro sarebbe stato epurato. Lui no. Liu Yunshan è l’uomo della censura sui media e su Internet. Sua è la responsabilità per l’oscuramento di tutte le informazioni non gradite al Partito. Wang Qishan e Zhang Gaoli sono gli unici due veri “riformisti” ed esperti di economia. Il primo è ormai una celebrità: in qualità di vicepremier per la finanza è il responsabile di gran parte dell’ultima ascesa economica cinese. È anche l’unico ad aver maturato un’esperienza al di fuori del Partito, come amministratore delegato della Construction China Bank. L’altro tecnico, Zhang Gaoli, è stato l’edificatore del nuovo quartiere finanziario della città di Tianjin. Questi due uomini sono l’eccezione che conferma la regola: la Cina vuole ancora affrontare il suo riformismo economico, non per trasformarsi, ma per permettere al suo sistema di sopravvivere e prosperare. Finché sarà possibile mantenere il monopolio politico del Partito.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:02