Intervista a Grover Norquist

Queste ultime elezioni statunitensi erano una scelta di campo, fra un sistema più socialista, voluto da Barack Obama ed uno più liberista, proposto (forse con troppo poca convinzione e sincerità) da Mitt Romney. È dunque naturale attendersi, dopo la sconfitta, che i Repubblicani si dividano in due fazioni recriminanti: i centristi accuseranno i conservatori di essere stati troppo liberisti, troppo “estremisti”, e dunque di aver spaventato l’elettore medio. I conservatori e i libertari, al contrario, accuseranno i centristi e gli uomini di establishment di essere stati troppo morbidi, poco convincenti e di aver sostenuto sin dall’inizio un candidato debole, quale Mitt Romney.

Per fare un po’ di chiarezza in mezzo a tutta questa confusione, abbiamo intervistato il fondatore e leader dell’Americans for Tax Reform, Grover Norquist. La sua Atr, la lobby anti-tasse, è attualmente considerata la più potente d’America. Sua è l’idea di far giurare ai politici di non aumentare la pressione fiscale durante il loro mandato, in cambio del sostegno e dei voti dell’Atr. Chi non rispetta la promessa, paga pegno, anche se si chiama George W. H. Bush: non appena ha alzato le tasse, non rispettando il “pledge” con l’Atr, è stato bocciato dall’elettorato nelle presidenziali del 1992.

Grover Norquist, in questo voto del 2012 Romney ha perso perché è stato troppo o troppo poco coerente nel proporre un programma liberista?

Prima di tutto, non dobbiamo dimenticare che queste stesse elezioni, perse da Romney per due punti percentuali contro il presidente (e l’amministrazione in carica gode comunque di molti vantaggi), sono state vinte dai Repubblicani alla Camera. I candidati deputati avevano impostato la loro campagna soprattutto contro i benefit statali, i costi del welfare e quelli del sistema pensionistico. La maggioranza degli americani ha votato per quelle riforme. Se gli elettori avessero voluto premiare la politica fiscale democratica, avessero voluto più tasse e più spese, a quest’ora i Democratici sarebbero maggioranza alla Camera. Eppure non lo sono. è chiaro che la vittoria di Obama è dovuta anche alla sua accusa, rivolta a Romney, di voler alzare le tasse per la classe media. E alla sua promessa di non voler aumentare la pressione fiscale sugli americani di medio reddito. E all’altra sua promessa di voler tagliare la spesa pubblica. In realtà noi sappiamo che Obama vuole alzare le tasse: ne ha già annunciato una nuova sull’energia, la carbon tax. Dichiara di voler contrastare il riscaldamento globale e puntualmente questo si è tradotto in altri dollari pronti ad uscire dalle tasche dei contribuenti. E siamo anche sicuri che non taglierà la spesa pubblica. Insomma, è difficile dire che gli americani siano diventati socialisti, quando il candidato che vince deve negare di esserlo e accusa l’avversario di voler alzare le tasse.

Quanto è forte la crisi interna al Partito Repubblicano? Ci sarà una frattura fra conservatori e libertari?

Non c’è una vera e propria distinzione fra conservatori e libertari, semmai fra chi ha capito che per ottenere un cambiamento occorre molto tempo e chi invece è convinto che basti strillare e agitarsi per cambiare tutto subito. Per riformare lo stato sociale occorre tempo e tanta pazienza, bisogna passare attraverso molte elezioni, alcune vinte altre inevitabilmente perse. Un piano come quello di Paul Ryan prevede un taglio della spesa pubblica dal 24% al 16% in più di quattro anni di legislatura, perché per riformare tutte le prebende statali occorrono anni e anni. Strillare la volontà di un cambiamento domani non porta a nulla. Mirare alla vera riforma del welfare implica anche un decennio di battaglie. Se avesse vinto Romney avremmo iniziato ad applicare il piano di Ryan. Adesso tocca attendere altri quattro anni per tentare con un nuovo candidato, dai due ai quattro anni per avere un nuovo Congresso più favorevole.

Adesso, in ogni caso, abbiamo un Presidente democratico e un Congresso misto. Cosa succederà, secondo lei?

Quel che abbiamo oggi è uno scenario molto simile agli ultimi due anni: presidente e maggioranza del Senato democratici, Camera repubblicana. In queste condizioni abbiamo combattuto per mantenere il prolungamento delle esenzioni fiscali (volute da George W. Bush, ndr) e l’abbiamo ottenuto. Abbiamo combattuto contro l’aumento della spesa pubblica e abbiamo ottenuto molto anche su quel fronte. Il Congresso è decisamente più potente del Presidente. Non nella politica estera, ma almeno in quella interna ed economica. Con un Congresso così configurato si può ancora combattere per ottenere molto. Sempre che i Repubblicani capiscano la forza di cui dispongono. Se Obama vorrà spendere altri dollari, dovrà prima ottenere il consenso della Camera. Inoltre il Gop ha ancora il controllo di gran parte dei singoli stati. E da quella posizione può riformare le leggi locali.

E cosa prevede per i prossimi quattro anni?

Ancora molti scontri muro-contro-muro, uno stallo prolungato, specialmente sulle esenzioni fiscali, che dovrebbero essere prolungate per altri due anni. La stessa agenda di Obama dovrà essere ridotta. Perché se vuoi far passare grandi riforme devi comunque avere un Congresso dello stesso colore dell’amministrazione.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:28