Delitto Rachida giustizia è fatta
Sorbolo Levante di Brescello, provincia di Reggio Emilia: una donna marocchina di 35 anni, madre di due bambine di 11 e 4 anni, era considerata, dal marito, troppo vicina agli usi e costumi occidentali. Ed era sospettata di volersi “addirittura” avvicinare al cristianesimo. Un reato che nei regimi islamici (ma non in Italia) è punito con il carcere o con la pena capitale. Il marito di Rachida Radi, questo il nome della donna, l’ha uccisa con 10 colpi di martello. Accadeva il 19 novembre del 2011. Ora siamo giunti ad una conclusione di questa storia: il marito assassino, Mohammed el Ayani, è stato condannato a 30 anni di carcere per omicidio, con l’aggravante dell’azione crudele. Il pm Maria Rita Pantani aveva chiesto l’ergastolo per l’extracomunitario, ma nel corso del processo è venuta meno l’aggravante della premeditazione. Alle figlie di Rachida il giudice ha riconosciuto un risarcimento di 100mila euro a testa, 15 mila euro ai due fratelli e alla sorella della vittima (che vivono in Marocco) e 40mila euro al padre e alla madre, anche loro residenti in Nord Africa. Mille euro, fra le parti civili, alla Presidenza del Consiglio dei ministri, la cui costituzione era stata sollecitata dall’allora ministro delle Pari Opportunità, Mara Carfagna. Un euro simbolico, infine, alla deputata del Pdl Souad Sbai, presidente della onlus Acmid Donna.
Si è trattato di un omicidio religioso? La sentenza, escludendo la premeditazione, avalla la tesi del raptus. La violenza, in quella famiglia, non era una novità. Quando i coniugi abitavano a Langhirano di Parma, lei aveva già presentato una denuncia per maltrattamenti, ma poi l’aveva ritirata. Negli ultimi mesi la situazione sembrava più serena. Finché non è giunto il momento del delitto. I vicini di casa li sentivano litigare spesso, anche per questioni religiose. Rachida era accusata di non praticare più la religione islamica con lo stesso zelo di prima. Di amare troppo la cultura del Paese che l’aveva accolta. E di essere troppo in contatto con la parrocchia di Brescello, dalla quale aveva ricevuto aiuti economici per la famiglia (marito compreso). Souad Sbai l’aveva detto sin dalle prime settimane dopo l’omicidio: «Basta il sospetto di un avvicinamento alla scelta del Battesimo per provocare reazioni poco felici». «Aveva una grande voglia di integrarsi» - spiegava, al tempo del delitto, il sindaco Giuseppe Vezzani. Per arrotondare le entrate, faceva lavoretti per la parrocchia. Un lavoro che le aveva permesso di aprirsi con il mondo. Ma che le è costato la vita.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:31