La metastasi della crisi nucleare iraniana

Da un po’ di tempo, ci sono due dossier internazionali che, senza che se abbia una percezione del tutto limpida, si intrecciano diciamo “pericolosamente”: la ormai certa dotazione di tecnologia nucleare a scopo militare dell’Iran e la crisi siriana, con la sua sanguinosa guerra civile.

Il Paese che più si sente minacciato dalla possibilità di un attacco nucleare iraniano è quello che, storicamente, da sempre, vive nel costante incubo di qualcuno che vuole la sua scomparsa come Stato e come popolo: Israele.

Il premier britannico, David Cameron, ha personalmente avvertito Israele di non intraprendere alcuna azione militare contro l’Iran, per il momento. Lo ha rivelato lo stesso primo ministro durante un suo intervento alla cena annuale dell’organizzazione di beneficenza ebraica United Jewish Israel Appeal, in cui ha dichiarato che sebbene non tollererebbe «un Iran con armi nucleari», ha chiesto al primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu di dare alle sanzioni economiche in corso il tempo di produrre i loro effetti.

Cameron ha affermato: «Ho detto al primo ministro Netanyahu che ora non è il momento di ricorrere ad un intervento militare. Oltre ai pericoli inerenti a qualsiasi conflitto, l’altra ragione è questa: nel preciso momento in cui il regime si trova a sfidare pressioni senza precedenti e la gente è per le strade, e quando l’ unico vero alleato dell’Iran, la Siria, sta perdendo il suo potere, un attacco militare straniero sarebbe l’ occasione che il regime cercherebbe per unire il suo popolo contro un nemico esterno». Il primo ministro ha tenuto tuttavia aperta la possibilità di un attacco all’Iran, dicendo: «Nel lungo termine, se l’Iran compisse le scelte sbagliate, non è da escludere. Un Iran dotato di armi nucleari è una minaccia ad Israele e al resto del mondo».

Va detto che il ragionamento di Cameron non fa una piega e sintetizza, dal punto di vista occidentale, l’attuale pericoloso intrecciarsi delle dinamiche geo-politiche dell’area.

In Siria, intanto, secondo il regime, proseguono le “operazioni anti-terrorismo”.

Citando fonti governative delle varie località in rivolta, l’agenzia ufficiale Sana afferma che «operazioni speciali condotte dai valorosi soldati hanno portato all’eliminazione di numerosi terroristi» ad Aleppo e Homs, al ritrovamento di diversi covi e al sequestro di ingenti carichi di armi e munizioni, compresi cannoni di mortaio e mitragliatrici anti-aeree montate su veicoli pick-up. La Sana non riferisce di eventuali vittime tra i militari governativi né di vittime tra i civili. I media ufficiali non fanno inoltre menzione dell’uso dell’aviazione per contrastare l’avanzata dei ribelli, ma si riferiscono sempre ed esclusivamente a truppe di terra.

Secondo i ribelli, invece, le forze del governo siriano hanno eseguito diversi raid aerei sulle roccaforti dei rivoltosi nel nord della Siria, causando diversi morti. Si tratterebbe, a sentire l’Osservatorio Siriano per i Diritti umani, di bombardamenti fra i peggiori da quando i ribelli hanno preso la città di Maaret al-Numan, nella provincia di Idlib.

Abbiamo detto di “intrecci”. Un incontro a sorpresa sulla crisi siriana si è svolto tra il presidente iraniano, Ahmadinejad, e il primo ministro turco, Erdogan, a Baku, in Azerbaigian, a margine del 12mo summit dell’ Organizzazione per la Cooperazione Economica (Oce). Oltre alla crisi in Siria, su cui i due premier hanno opinioni divergenti, durante il faccia a faccia si è discusso anche della questione nucleare. Le relazioni tra Iran e Turchia negli ultimi mesi si sono deteriorate a causa della situazione siriana. Ankara punta a un cambio di regime a Damasco, mentre Teheran ha spesso ribadito il suo sostegno ad Assad. Intrecci pericolosi, insomma, tra Iran, Israele, Siria e Turchia, con gli Usa e l’Europa che, per ragione diverse, stanno (troppo) a guardare. 

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:25