I passi falsi degli Usa in Medio Oriente

L’attacco perpetrato l’11 settembre scorso ai danni della rappresentanza diplomatica americana a Bengasi con il linciaggio e l’uccisione del suo ambasciatore, Christopher Stevens, e di tre uomini del suo staff (episodio per il quale proprio ieri la Clinton ha ammesso le proprie responsabilità) coincide con una fase particolarmente instabile degli assetti politici mediorientali.

Come già accaduto in passato questo episodio, seguito da un’ondata di violenza propagatasi sino all’Asia e all’Oceania, nasce, come si sa, dalla diffusione di un film su Maometto in cui il Profeta è dipinto con toni canzonatori, e obbiettivamente offensivi.

Secondo molti analisti, questo assalto sembra presagire un futuro fosco per il ruolo politico dell’amministrazione americana in tutto il Medio Oriente. 

Infatti, ciò che è accaduto vede anzitutto nello sfondo il “ braccio di ferro” tra Israele e Stati Uniti sul dossier nucleare Iraniano.

Da parecchi mesi, infatti, Gerusalemme e Washington non celano più un ormai evidente e profondo disaccordo circa la politica da adottare: Israele vorrebbe che gli Stati Uniti ponessero dei limiti ben definiti al programma nucleare del regime degli Ayatollah, al superamento dei quali un intervento militare scatterebbe automaticamente. 

Gli Stati Uniti, d’altro canto, ritengono che le sanzioni economiche già operative costituiscano un lavarage efficace, almeno nel breve periodo e comunque non intendono discostarsi dalla via diplomatica, con un approccio del tutto simile, almeno nella forma, da quello ormai consolidato riguardo alla crisi siriana. 

L’attuale presidente Obama sa bene che un attacco all’Iran (così come alla Siria) rappresenterebbe un’incognita troppo rischiosa nel delicato equilibrio che la sua amministrazione è riuscita a tessere non solo in Medio Oriente, ma anche nelle relazioni tra Usa e Russia, che appoggia le rivendicazioni iraniane.

In Israele la prova di forza è tra il Presidente Shimon Peres, contrario a un “avventurismo” militare israeliano senza le dovute garanzie da parte americana e il Primo Ministro Benjamin Netanyahu che, insieme al  ministro della difesa Ehud Barak, vorrebbe invece colpire i siti nucleari iraniani anche senza il supporto dell’alleato americano.

Il rischio nel breve periodo può essere legato al fatto che gli Stati Uniti si trovino coinvolti nella gestione di un conflitto scatenato da Israele al quale comunque non potrebbero volgere le spalle.

Quel che è certo è che il solo argomento è già diventato una delle issues della campagna elettorale americana, e che rischia di sottrarre ad Obama voti importanti da parte dell’influente elettorato filo-israeliano. In tutto questo, si inserisce quindi la crisi dell’attacco all’ambasciata americana, già utilizzato da una parte del Partito Repubblicano per rispolverare vecchie memorie “alla Carter” e denunciare una certa debolezza, se non altro “di profilo”, dell’amministrazione americana nei paesi del Medio Oriente. Ed in effetti ad essere in gioco, al di là delle strumentalizzazioni elettorali, è la strategia di quei Paesi - America in testa - che hanno immediatamente appoggiato le “rivoluzioni arabe” (anche militarmente, come nel caso della Libia) e che si trovano oggi impreparate a comprendere, prima che a gestire, la vera natura dei cambiamenti in atto.

La reazione violenta che si è vista in Egitto e in Libia denuncia, in questo senso,  una radicata ostilità nei confronti della presenza occidentale.

Il punto vero è che, oltre al ritiro delle truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan, sembra effettivamente che gli Stati Uniti non abbiano una convincente strategia politica per il Medio Oriente. In questo scenario il rischio concreto è che gli Usa si trovino alla mercé di quelle forze regionali in grado di sfruttare le contraddizioni del partner americano al fine di imporre la propria agenda politica. E ciò potrebbe significare coinvolgere l’America in guerre che non vorrebbe combattere, siano essa di “retroguardia” coi radicalismi che sempre serpeggiano nei meandri delle rivolte arabe, o frontalmente se Israele intenderà colpire i siti nucleari iraniani.

In ambo i casi, gli Stati Uniti di Obama uscirebbero da questo confronto ancor più indeboliti e screditati, di quanto, secondo i più, non lo siano già.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:18