Pogrom e censura contro il film blasfemo

Un’immagine, una vignetta o un video amatoriale considerati “blasfemi” nei confronti della religione musulmana, continuano a far da pretesto a violenze di massa e censure governative. Benché l’ondata di odio anti-occidentale in Nord Africa e nel Medio Oriente sia sparita dalle prime pagine, in Bangladesh una sola immagine postata su una pagina Facebook ha scatenato un pogrom. Questa volta non sono le vittime non sono ambasciate o comunità cristiane, ma i buddisti locali. Il 29 e il 30 settembre scorsi, nei sotto-distretti di Ramu, Ukhla, Patia e Teknaf, folle inferocite di migliaia di musulmani (circa 25mila in tutto il Paese) hanno assaltato e devastato almeno 22 templi buddisti e 2 indù. A Ramu, dove sono avvenuti gli scontri più gravi, sono stati rasi al suolo 15 edifici religiosi, uno dei quali antico di 250 anni.

E il tutto sarebbe avvenuto, appunto, per una sola immagine. Nemmeno pubblicata su un quotidiano, ma postata su una pagina Facebook personale, forse da un certo Uttam Kumar Barua, un giovane qualunque.

La polizia del Bangladesh ha arrestato 166 persone fra i responsabili delle devastazioni. Migliaia di persone, cristiani, animisti, buddisti e indù, sono in fuga. Il Bangladesh ha una schiacciante maggioranza musulmana. Fra i partiti di opposizione si distingue da anni il Jamaat-e-Islami, di ispirazione fondamentalista islamica. È soprattutto quella formazione che ha soffiato sul fuoco della presunta “blasfemia”. Una fonte dell’agenzia missionaria Asia News (coperta da anonimato) ritiene che l’immagine su Facebook sia solo un pretesto: la minoranza etnica musulmana dei Rohingya (perseguitati nella Birmania buddista e considerati cittadini di serie B anche in Bangladesh) avrebbe colto l’occasione per «…attirare l’attenzione sul loro problema».

Questi pogrom sarebbero finalizzati anche ad un vero e proprio saccheggio di terre: «Ancora una volta – spiega la fonte anonima di Asia News – i settlers bengalesi (musulmani, ndr) sfrutteranno la situazione per occupare le terre dei tribali della zona e cacciarli via». In effetti è dubbio che un singolo post su Facebook possa essere la vera “causa”. Come nel Medio Oriente, le scorse settimane, anche nella nazione Sud-asiatica questa ondata di furore religioso appare in tutta evidenza come un’azione già pianificata, o per lo meno “covata” da molto tempo e per tutt’altre cause. Fermarsi, qui in Occidente, a discettare sui limiti della libertà di espressione non sortirà alcun effetto. Perché qualsiasi pretesto, anche una semplice conversazione privata, anche un minimo gesto, può essere preso a pretesto per scatenare l’inferno. Eppure è di ieri la notizia che una nazione, non certo musulmana, la Russia, ha messo al bando il video amatoriale su Maometto con una sentenza della magistratura. La decisione dei giudici russi rientra già nella logica della nuova legge sui media (entrerà in vigore il prossimo 1 novembre) che istituisce delle “liste nere” di siti vietati agli utenti. La Russia non si è fatta scrupoli, negli anni scorsi, di uccidere decine di migliaia di musulmani in Cecenia. Cosa che non ha sortito alcuna protesta degna di nota nel mondo islamico. Ma oggi ritiene che un video amatoriale sia “contenuto estremistico” anti-musulmano. Quando si tratta di censurare…

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:48