La schiavitù parla cinese

Sulla stampa italiana e su quella estera è apparsa una notizia che ha destato l’attenzione di quanti si chiedono quale sia la condizione di vita dei lavoratori in Cina, la seconda super potenza mondiale, da cui dipende la sorte dell’economia planetaria. Il 24 settembre è una data che rimarrà, secondo gli osservatori, nella storia della Cina, poiché, in seguito ad una rissa avvenuta nello stabilimento della Foxcoonn, la produzione è stata sospesa ed interrotta. Questa azienda si trova a Taiyuan, città industriale situata tra le montagne dello Shanxi.

Si tratta di una azienda che è divenuta il simbolo della modernità, poiché produce ed assembla iPhone5, il telefono di nuova generazione, desiderato e ricercato in occidente dalla masse dei consumatori. A causa dell’incidente, verificatosi tra domenica e lunedì, per un giorno gli stabilimenti sono rimasti chiusi ed inattivi. Ovviamente sono stati riaperti subito dopo. Questa storia è importante e merita di essere valutata con grande attenzione, poiché svela e offre la possibilità di capire in che modo ed in quali condizioni vivono e lavorano gli operari di questa grande azienda, che produce parti dei nuovi strumenti tecnologici per conto di multinazionali quali Apple, Motorola, Microsoft.

Secondo la versione ufficiale, che deve essere sempre valutata con prudenza, in un Paese in cui esiste la censura e la libertà di informazione è negata in modo sistematico, all’origine della rissa, che ha provocato 40 feriti, e addirittura 10 morti, notizia non verificata, vi sarebbe stato un conflitto tra operai appartenenti a diverse etnie, provenienti alcuni dallo Shandong ed altri dall’Henana. In realtà questa versione dei fatti, fornita dalle autorità cinesi, è stata smentita da un diverso racconto diffuso nel web da persone che hanno assistito alla rissa ed alla sommossa, avvenuta nella notte tra domenica lunedì nella azienda Foxconn di Taiyuan.

In base a questo versione dei fatti ed a questo racconto, che grazie alla rete ha superato il muro di incomunicabilità frapposto dalla censura governativa, duemila dei settantamila operai di questa azienda si sarebbero ribellati, poiché un loro collega è stato con spietatezza picchiato e sottoposto ad una brutale aggressione da parte dei sorveglianti della fabbrica che assembla iPhone5. La colpa del dipendente e dell’operario, che ha indotto i sorveglianti a malmenarlo con crudele perfidia, era che non riusciva a svolgere il lavoro straordinario a cui era tenuto. Questo episodio mostra e rivela un fenomeno del sistema produttivo cinese, basato su uno pseudo-capitalismo autoritario e illiberale, che si configura come una forma moderna di schiavismo, di fronte alla quale in occidente vi è indifferenza e scarsa consapevolezza.
Infatti, in base ai dati diffusi dalle o.n.g., soltanto questo anno in Cina nella aziende che producono gli strumenti tecnologici, divenuti il simbolo della modernità nell’epoca della globalizzazione, si sono verificati molti casi simili a quello accaduto nello stabilimento della Foxconn. Addirittura si parla di centomila sommosse con cui gli operari si sono ribellati a ritmi di lavoro duri e insostenibili. Alla vigilia del congresso del partito comunista Cinese, che si terrà ad ottobre e la cui data non è stata ancora stabilita, la possibilità che gli operari rivendichino il rispetto dei diritti universali suscita spavento e preoccupazione tra gli eredi politici di Mao Zedong.

Soltanto nella azienda Foxconn questo anno 16 operai, in preda alla disperazione per la durezza delle condizioni lavorative, non hanno saputo resistere e si sono suicidati. I contratti con cui vengono assunti contemplano condizioni particolarmente vessatorie, che condannano gli operai a vivere perennemente rinchiusi nelle aziende, di fatto trasformate in luoghi di reclusione, dove la libertà umana è negata e conculcata. Un milione di operai della Foxconn vivono rinchiusi e reclusi negli stabilimenti di Shenzhen, Longhua, Foshan e Chengon, dove la rivolta, anche se repressa con durezza dalle autorità governative, dilaga e si esprime con forme di ribellione contro il sistema produttivo autoritario instaurato in Cina. Per far fronte alle necessità del sistema produttivo, spesso vengono assunti operai in nero.

Gli operai che non riescono a fare 80 ore di straordinario al mese, sono puniti e costretti a lavare le latrine. Coloro che subiscono incidenti ed infortuni sul luogo di lavoro, sono obbligati a dimettersi. Molti dipendenti sono, al momento della assunzione, costretti ad impegnarsi per iscritto che non si suicideranno. In realtà, le ricorrenti manifestazioni di protesta nei luoghi di lavoro in Cina dipendono da cause e circostanze note e di facile comprensione. In primo luogo, gli operai rivendicano migliori salari, condizioni di lavoro simili a quelli esistenti i occidente, ed il riconoscimento di alcuni diritti fondamentali. Pertanto il potere politico in Cina si trova dinanzi ad un drammatico dilemma: aumentare i salari e imporre la base dei diritti universali, perdendo capacità competitiva, in nome della crescita dei consumi interni, oppure mantenere immutate le condizioni produttive nel mondo del lavoro, per preservare e mantenere l’export.

Secondo gli osservatori e gli economisti alla base del malessere, che si diffonde nei luoghi di lavoro in Cina, oltre alle condizioni disumane e durissime in cui gli operai devono lavorare, vi è la preoccupazione perché a causa della recessione sono diminuite le esportazioni verso l’Europa e gli Usa. Molti operai, per effetto della crisi che ha provocato una diminuzione della capacità produttiva in Cina, sono rimasti privi di lavoro. Altri si sentono esclusi e condannati ai margini del sistema produttivo. Per queste ragioni le proteste dilagano nel Guangdong e nello Zhejiang, a Pechino e a Shanghai.

Per alcuni, a causa della crisi, per effetto della quale il mondo intero è sprofondato in una lunga recessione, il sistema autoritario cinese, indissolubilmente legato con l’economia occidentale ed in particolare con quella americana, di cui detiene il debito, rischia di implodere e collassare. In ogni caso netta è la sensazione che le masse degli operai cinesi non siano più disposti a lavorare per garantire la stabilità del sistema finanziario mondiale in condizioni disumane e senza il riconoscimento dei diritti universali, che di fatto li condanna ad una vita da schiavi privi di libertà.

Sarà interessante assistere alla discussione politica che si terrà, nel mese di ottobre, durante il congresso del partito comunista, per comprendere in quale direzione si muoveranno i governanti cinesi per fronteggiare la crisi economica emersa in un grande paese, divenuto la seconda super potenza mondiale.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:55