Se Maometto insanguina il Pakistan

La “Giornata per l’amore del Profeta” proclamata dal governo del Pakistan, si è trasformata in un giorno di odio e violenza. A Karachi, la principale città del Paese, a Peshawar, epicentro del fondamentalismo pakistano e a Islamabad,  le manifestazioni sono subito degenerate. I morti, in tutto, sono 15 (bilancio ancora provvisorio).

A Islamabad, una folla di militanti fondamentalisti ha violato la “zona rossa” delle ambasciate occidentali. Due check-point delle forze dell’ordine sono stati attaccati. La polizia ha dovuto sparare in aria e caricare per poter disperdere gli assalitori. Peggio ancora a Karachi, dove lo scontro ha causato l’uccisione di 10 persone, fra cui almeno 1 agente. A Peshawar, i fondamentalisti hanno devastato i cinema locali, simbolo di “corruzione” occidentale. La polizia ha sparato anche qui, uccidendo accidentalmente un autista della televisione Ary. In tutto, a Peshawar i morti sono 5. Sempre considerando che si tratta di un bilancio ancora provvisorio.

Quella del Pakistan è stata la singola azione più violenta dall’inizio delle violenze anti-occidentali, iniziate proprio l’11 settembre (11mo anniversario delle Torri Gemelle) con l’assalto alle sedi diplomatiche Usa al Cairo e a Bengasi (dove è stato ucciso l’ambasciatore Chritopher Stevens). Il Pakistan, ancora una volta, si conferma come il fronte più pericoloso dello jihadismo. Le sue istituzioni sono ancora divise da lotte intestine, dopo la deposizione del generale Musharraf e gli islamisti approfittano del vuoto di potere. È quantomeno ambiguo il ruolo del potente servizio segreto nazionale, l’Isi, accusato dagli americani di armare i Talebani in Afghanistan. Le regioni tribali (a ridosso di Peshawar) sono tuttora una fucina di guerriglieri islamici e un rifugio sicuro per i Talebani. Una possibile implosione del Pakistan è considerata tuttora, dagli strateghi americani, come uno dei peggiori “scenari da incubo”: il Paese è una potenza dotata di armi atomiche.

La protesta attuale prende a pretesto un video amatoriale su Maometto, giudicato “blasfemo” e ora anche le vignette pubblicate sul giornale satirico francese Charlie Hebdo. Ma, più passa il tempo, più appare come un vasta aggressione deliberata, partita dalla Libia e dall’Egitto. E alla cui organizzazione, a Bengasi, ha partecipato anche un ex internato di Guantanamo, Ben Qumu. Era stato liberato da Gheddafi, nel 2010, dopo la sua riconsegna alle autorità libiche.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:39