L'assordante silenzio di Terzi sui marò

Riecheggiando il detto «nessuna nuova buona nuova», se ne dovrebbe concludere che l’ulteriore rinvio al 28 agosto, deciso lo scorso giovedì 16, di ogni decisione di merito da parte della Suprema Corte federale indiana sulla vicenda dei nostri fucilieri di Marina loro ostaggi debba considerarsi un fatto positivo, una sorta di presa d’atto che non ci sono elementi per avviare un procedimento giudiziario basato su prove oggettive e non su fantasiose e poco probabili testimonianze in stile processi medioevali per stregoneria.

Ma a sei mesi da quel 19 febbraio, quando i nostri due commilitoni vennero di fatto estradati, contravvenendo al dettato della nostra Costituzione che vieta qualsiasi forma di estradizione in paesi dove, come in India, per il tipo di reato di cui sono stati accusati, con l’incredibile aggravante dell’associazione a delinquere, è prevista la pena di morte, non sarebbe da considerare positivo neppure il loro totale, completo, assoluto proscioglimento da parte della magistratura indiana, nello specifico di uno stato della federazione che, come tale, non ha personalità internazionale.

Tra i pochi dati oggettivi c’è quello che ad uccidere i due indiani imbarcati su un natante impegnato in presunte attività di pesca sono stati proietti di calibro 7,62 russo, più lunghi di 3 mm del corrispondente calibro Nato; peraltro le armi in dotazione al Nucleo imbarcato sulla Enrica Lexie erano tutte di calibro 5,56, decisamente inferiore e dai diversissimi inconfondibili effetti anatomopatologici sui bersagli. Sarebbe bastata questa semplice constatazione a escludere ogni coinvolgimento dei militari italiani.

Inoltre, il proprietario e comandante del natante fatto oggetto da fuoco sconosciuto ha cambiato versione per ben cinque volte, tra l’altro mai dando coordinate compatibili con la posizione del mercantile italiano difeso da un nucleo antipirateria. Peggio, ha persino dichiarato alla stampa di non avere riconosciuto nessuna nave e che il nome della Enrica Lexie era scaturito da un consiglio della locale polizia. La traiettoria dei colpi che hanno lasciato traccia oggettiva e incontrovertibile risulta, secondo una analisi tridimensionale eseguita dall’ingegner Luigi Di Stefano, in direzione dal basso verso l’alto, quindi sparati da una imbarcazione probabilmente più bassa, non dalla tolda di una petroliera.

Questo scenario porta a non escludere un possibile conflitto a fuoco in cui sia stato coinvolto il Saint Anthony, il peschereccio che gli indiani asseriscono scambiato per imbarcazione pirata. Se questo sia effettivamente avvenuto non lo sapremo mai, perché il natante dato in consegna giudiziaria al proprietario è stato da questi fatto colposamente affondare, avendone asportato il motore e l’elica, con conseguente imbarco d’acqua. Sul relitto ripescato non sono quindi più riscontrabili eventuali residui di polvere da sparo, prove di un ipotetico conflitto a fuoco, e gli stessi fori dei proietti hanno subito deformazioni per la permanenza in acqua della struttura in legno. Il testimone, come viene indicato in gergo giudiziario questo genere di reperti, è morto annegato, colposamente fatto annegare.

Si comprende allora il malumore dei commilitoni che si sono organizzati in difesa e a sostegno dei due militari persi in ostaggio dagli indiani del Kerala. In un duro comunicato stampa diramato dal Gruppo facebook «Riportiamo a casa i due militari prigionieri» viene espressa una ferma e critica presa di posizione nei confronti dell’operato del Governo, nello specifico della Farnesina.

«Se il ministro Giulio Terzi di Sant’Agata si fosse impegnato in difesa dei nostri commilitoni con lo stesso attivismo mediatico profuso in ferragostiane interviste su questioni internazionali sulle quali non siamo oggettivamente in grado di esercitare una credibile influenza - puntualizza il generale Fernando Termentini, uno degli amministratori del Gruppo - non ci troveremmo oggi, nella migliore delle ipotesi, che ci vengono restituiti con una pesante accusa a loro carico e in un contesto paradossale di competenze tra magistratura ordinaria e magistratura militare. La prima per occuparsi del caso dovrebbe derubricarlo ad omicidio colposo, altrimenti l’omicidio volontario con cui ha aperto il fascicolo sarebbe di competenza di quella militare, che aveva trasmesso l’originario rubricato con tale ipotesi a quella ordinaria non avendone ravvisato gli estremi della fattispecie, pertanto rubricandolo come colposo. Peraltro non avendo avocato a se i fatti nemmeno per un’ipotesi di violata consegna da parte dei due militari è logico desumere che la Procura Militare escluda qualsiasi dolo». 

Altro paradosso, aggiungiamo noi, è che la prevaricazione indiana di porre sotto accusa e di tenere in ostaggio i nostri due commilitoni per così lungo è stata resa possibile dall’acquiescenza italiana alle loro fantasiose accuse, smontate pezzo per pezzo e triturate come carta straccia dalla analisi tecnica dell’ingegnere Luigi Di Stefano, ufficialmente ignorata nonostante la stampa ne abbia a sufficienza parlato.

Ci chiediamo con angoscia cosa avverrà ora. Il nostro governo continuerà a mantenere il “basso profilo” ignorandola, o cambierà approccio? Basterebbe nominare Luigi Di Stefano perito di parte, sempre che il “basso profilo” adottato per non urtare la suscettibilità degli indiani lo consenta. Purtroppo questo è un governo di basso profilo e non possiamo farci assolutamente nulla.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:37