Londra non molla la presa su Assange

È qualcosa di più di un semplice hacktivist. Julian Assange, fondatore del sito Wikileaks, è da cinquantotto giorni sotto la custodia delle forze di sicurezza ecuadoregne nell’ambasciata di Londra e il caso giudiziario che lo vede protagonista, assume i tratti di un intrigo cyber internazionale. In ballo c’è il prestigio della Gran Bretagna, le pressioni di Washington per togliere di mezzo un problema per la sicurezza nazionale e la richiesta di estradizione presentata dal governo svedese. Tre stati che attaccano, una preda e un difensore: l’Ecuador. Il governo sudamericano concede l’asilo politico al rifugiato, ignorando le minacce inglesi di «prendere d’assalto l’edificio».

Le autorità londinesi avevano fatto sapere che non avrebbe mai permesso il suo espatrio da uomo libero: «Se riceveremo una richiesta di salvacondotto per Assange in caso di asilo politico, questa richiesta sarà rifiutata in linea con i nostri obblighi legali». Il ministro degli Esteri ecuadoregno, Ricardo Patino, dopo aver fatto la voce grossa e aver ricordato che l’ingresso non autorizzato di qualsiasi autorità britannica nell’ambasciata sarebbe stata considerata una violazione del diritto internazionale, annuncia il provvedimento in conferenza stampa. «Julian Assange rischia di diventare un perseguitato politico. Se dovesse finire negli Usa, il capo di Wikileaks non riceverebbe un giusto processo e potrebbe addirittura essere messo a morte».

Il rischio, fatto presente dalle autorità ecuadoregne, riguarda il trasferimento dell’imputato in Svezia. Per questo motivo l’Ecuador ha richiesto a Stoccolma garanzie sull’incolumità del prigioniero. Queste non sono arrivate ed ecco, dunque, le basi che  giustificano l’asilo politico. L’hacker parla di «vittoria significativa». Il Foreign Office considera tale decisione deplorevole. La Gran Bretagna aveva paventato l’ipotesi di prendere le azioni necessarie per arrestare Julian Assange nell’ambasciata grazie a una serie di norme internazionali varate nel 1987. Lo affermava in una lettera spedita al governo di Quito. La risposta ecuadoregna non si è fatta attendere. «L’Ecuador non è una colonia del Regno Unito e siamo pronti a convocare riunioni d’urgenza dell’Unasur e dell’Organizzazione degli stati americani».

È intervenuto sull’argomento anche Sir Tony Brenton, ambasciatore per il Regno Unito dal 2004 al 2008, dichiarando che se il Foreign Office tradurrà in azioni quelle minacce avrà arbitrariamente violato il diritto internazionale e renderà la vita impossibile ai diplomatici britannici all’estero. «Hanno leggermente esagerato sia dal punto di vista legale che pratico e il governo non credo abbia interesse a creare una situazione che renda possibile ad altri governi nel resto del mondo di revocare arbitrariamente l’immunità diplomatica. Sarebbe un pessimo esempio». La strada opportuna sarebbe stata la ricerca di un accordo negoziato. Ora è troppo tardi. Il governo britannico fa sapere, tuttavia, che la decisione dell’Ecuador non cambia le carte in tavola. In un comunicato si ricorda che in base alla legge britannica l’imputato ha esaurito tutte le opportunità di presentare appello e adesso il governo di Sua Maestà è vincolato ad estradarlo in Svezia. Il futuro di Assange non è ancora deciso.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:57