La faccia tosta dell'Onu dopo la Siria

Dopo il fallimento del piano di pace di Kofi Annan, l’Onu ha indicato, in via non ufficiale, il prossimo inviato di pace in Siria: il diplomatico algerino Lakhdar Brahimi. Se confermato, sarà lui ad assumersi il compito di negoziare una tregua fra il regime di Bashar al Assad e gli insorti, riproponendo un nuovo piano di pace e di transizione dalla dittatura alla democrazia. Sulla carta, Brahimi potrebbe essere l’uomo giusto al posto giusto. Si tratta di una delle personalità più note ed esperte delle Nazioni Unite.

Fa parte del gruppo degli “Anziani”, veterani della politica che lavorano per la pace nel mondo, un club ristretto di cui fa parte anche Nelson Mandela. È stato un alto funzionario della Lega Araba negli anni ’80 ed ha alle spalle una lunga esperienza di mediatore nel conflitto del Libano. È stato anche ministro degli Esteri dell’Algeria dal 1991 al 1993, gli anni in cui montava la guerra civile nel suo Paese. A ben vedere, però, la sua missione partirebbe azzoppata, proprio a causa del suo passato in Libano. Lakhdar Brahimi è uno degli artefici del piano di pace per il Paese dei Cedri, che ha portato alla fine del conflitto nel 1992, ma lo ha reso, di fatto, un protettorato del regime di Assad. La cosiddetta “pax siriana” è durata almeno sino al 2005, quando, dopo lo scalpore internazionale e le proteste suscitate dall’assassinio dell’ex premier sunnita Rafiq Hariri, l’esercito di Damasco dovette ritirarsi. Forte di questo precedente, il regime di Assad potrebbe nutrire piena fiducia in un mediatore come Brahimi. Ma per lo stesso motivo è difficile che il possibile nuovo inviato risulti altrettanto popolare fra gli insorti.

Lakhdar Brahimi, se confermato, o chiunque altro venga nominato nuovo inviato per la Siria, si troverebbe ad affrontare una difficoltà in più: ripristinare la fiducia nelle Nazioni Unite. Che dopo il fallimento di Kofi Annan è ai minimi termini. L’Onu appare indecisa, incapace di mettere in pratica le sue proposte e lacerata al suo interno dalla politica dei “no” opposti da Cina e Russia a qualsiasi azione per la Siria. Non solo: alcune infelici scelte recenti contribuiscono a minare la credibilità del massimo organo sovranazionale. La candidatura ufficiale del Sudan al Consiglio dei Diritti Umani è una di queste scelte infelici.

Il Sudan è alle prese con una sua latente ribellione interna ed è tuttora governato da Omar Bashir, il dittatore militare artefice del genocidio nel Sud Sudan e della pulizia etnica del Darfur, incriminato dal Tribunale Penale Internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Se dovesse essere eletto, dovrebbe anch’egli partecipare allo scrutinio del rispetto dei diritti umani in Siria. E non solo lui: probabilmente anche Hugo Chavez verrà eletto nello stesso Consiglio. Altro noto “campione della democrazia”, Chavez, non solo, sta sopprimendo ogni diritto (a partire da quello della proprietà privata) in Venezuela, ma è anche strettamente legato all’Iran, principale protettore del regime siriano. Infine, ma non da ultimo, la Siria stessa, oltre ad esser tuttora parte di due comitati per i diritti umani dell’Unesco è ancora formalmente candidata ad entrare a far parte del Consiglio dei Diritti Umani nella rotazione del 2014. Gli Stati Uniti avevano chiesto la sua squalifica, il mese scorso, senza ottenere alcun risultato. Tutto si può pretendere, ma non che Assad condanni se stesso.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:50