Quando l’Europa deciderà di aprire gli occhi, e di guardare ad Israele come ad un baluardo fondamentale dell’Occidente, presumibilmente sarà troppo tardi. Perché il problema non è tanto l’Iran o Hezbollah; è la mancata integrazione politica, il grigiore culturale, l’appiattimento ideologico, l’assenza di prospettive a lungo termine. Cose che minano, rischiando di distruggere definitivamente, le fragili fondamenta di un continente dalla storia plurimillenaria.
La crisi economica sta dimostrando ogni giorno, e molto duramente, dove ci abbia portato una visione troppo superficiale e disinvolta dell’unificazione europea, che ha dato alla Ue un cospicuo numero di membri, una grande estensione territoriale, milioni di abitanti e un immenso mercato interno, senza riuscire tuttavia ad esprimere un documento fondamentale di condivisione di valori e finalità, un parlamento titolare di poteri decisionali, una politica estera comune, una concezione analoga della sicurezza territoriale, una strategia condivisa contro il terrorismo, la criminalità, l’immigrazione clandestina, la speculazione finanziaria. Nemmeno una banca che stampi moneta.
E lo spread è come l’antisemitismo: interessato fino ad un certo punto a quello che fanno i singoli paesi, e sensibilissimo all’immagine che l’Europa è in grado di dare di sé in quanto insieme di paesi che condividono metodi e obiettivi. Economici, in un caso, politici e morali, nell’altro. Si può ragionare a lungo sul fatto che i paesi europei geograficamente più vicini al Medioriente si prestino maggiormente come base logistica e operativa agli attentati terroristici, ma il punto non è questo. Burgas è un luogo facile e simbolico (in quanto località turistica) da colpire, certo, ma in questi ultimi mesi il susseguirsi di attacchi agli ebrei (perché solo di questo si tratta), è stato regolarmente accompagnato da una sottostima della matrice antisemita e del campanello d’allarme di una escalation preoccupante.
Bisogna ricordarsi che in Europa l’antisemitismo non è mai stato superato, che sulle ceneri del vecchio si cumula e sedimenta quello d’importazione dei nuovi cittadini europei, e che il sentimento antiebraico è una panacea consolidata per tutte le frustrazioni da guerre e crisi economiche; non c’è dramma planetario che non venga in qualche misura attribuito allo zampino del sionismo mondiale. Di fronte a queste realtà, che oggi si ripresentano nella forma più aggressiva, l’Europa rifiuta di vaccinarsi e tutelarsi. Come nel campo economico e finanziario, ogni paese va per conto suo, sia sotto il profilo della sicurezza che dei rapporti con Israele, e i risultati variano dai boicottaggi economici e culturali alle frontiere colabrodo per i terroristi. Fino a qualche giorno fa l’unica cosa su cui tutti sembrano d’accordo era persino la negazione del minuto di silenzio ai giochi olimpici di Londra in ricordo del quarantesimo anniversario della strage di Monaco ’72. Ma qualunque difesa è vana se in Svezia basta sposare un nativo per ottenere la cittadinanza; se la Bulgaria, che è storicamente abbastanza immune all’antisemitismo, non sente la necessità di controllare chi entra e chi esce dai propri confini; se la Francia preferisce attribuire la strage di Tolosa a un pazzo piuttosto che ammettere di essere uno dei paesi in cui l’antisemitismo è maggiormente radicato e diffuso; se l’Europa intera non avverte la minaccia alla propria sopravvivenza di una politica di accoglienza imbelle e indiscriminata. Il kamikaze di Burgas non ha ancora un nome, ma il governo si affretta a dichiarare senza riserve che non si tratta di un cittadino bulgaro, e la Svezia nega che possa essere un proprio connazionale di origini algerine uscito da Guantanamo nel 2004. Ma per ora non c’è alcuna certezza e le indagini proseguono.
A prescindere da chi ci sia dietro l’attentato in Bulgaria, e dal perché sia stato attuato, il dato che deve far riflettere è quello che Raphael Israeli - professore di storia dell’Islam, del Medioriente e della Cina all’Università Ebraica di Gerusalemme - chiama incompatibilità tra Islam ed Europa, e quello che ne consegue. Due aneddoti vissuti e raccontati recentemente dallo stesso Israeli: nella cittadina svedese Malmo, su 300mila abitanti un terzo è musulmano e molti svedesi si sentono stranieri a casa propria, e forse lo sono, se un residente commerciante islamico ha sostenuto senza ombra di perplessità che, nonostante in Svezia si viva bene, i musulmani non ne possono accettare la bandiera in quanto è caratterizzata dal simbolo della croce. Secondo Israeli questo è un tipico esempio di incompatibilità, ma l’accademico israeliano ne cita altri, ancora più allarmanti. A Londra ha incontrato un imam yemenita, molto affabile e gentile, che a causa di un handicap fisico riceve dalle istituzioni inglesi una cospicua pensione di invalidità con la quale mantiene tutta la famiglia.
Invitato ad ascoltare la preghiera del venerdì, Israeli si è recato in moschea ed ha personalmente assistito all’incitamento dell’imam a recarsi in Afghanistan ad imparare la jihad. A preghiera terminata, Israeli gli ha chiesto se non fosse contraddittorio vivere grazie alle istituzioni inglesi e poi predicare la guerra contro l’Occidente, e l’imam ha risposto che tutto è temporaneo, che tra vent’anni in Europa sventolerà la bandiera islamica, quindi perché, nel frattempo, non approfittare? L’espansionismo, sostiene Israeli, è connaturato all’Islam, che ha tentato la conquista dell’Europa dall’ottavo secolo in poi con le armi, venendo sempre sconfitto. Ora però la guerra è condotta con l’immigrazione, e tre, in particolare, sono le minacce: la crescita demografica, la riunificazione familiare e le conversioni degli europei, che sono in aumento. Se Raphael Israeli ha ragione, è probabile che l’Europa si rialzerà dalla crisi economica, ma dal punto di vista culturale, a meno di una straordinaria presa di coscienza, è lecito temere che la sconfitta sia alle porte.
Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:45