Libia: Vince Mahmoud Jibril

Le prime libere elezioni in Libia si sono finalmente concluse con la vittoria dell’Alleanza delle Forze Nazionali di Mahmoud Jibril, l’ex premier del Consiglio Nazionale di Transizione (Cnt) durante la guerra civile. La sua coalizione di partiti laici e riformatori, ha vinto 39 seggi fra gli 80 riservati ai partiti politici. Dura battuta d’arresto, invece, per il partito Giustizia e Costruzione, islamico ed emanazione dei Fratelli Musulmani locali: ha conquistato appena 17 seggi.

Gli ultra–fondamentalisti del Partito della Nazione, guidato dal discusso Abdul Hakim Belhaj (sospettato di avere legami con Al Qaeda), non hanno preso neppure un seggio. Sembra invece determinante, per la formazione di una coalizione di governo, il Partito Nazionale di Centro, guidato dall’ex ministro del petrolio del Cnt, Alì Tarhouni. E anche questa è una forza laica. L’iter per la formazione di un esecutivo è tutt’altro che concluso. C’è sempre l’incognita dei 20 deputati indipendenti, extra–partitici, che potrebbero ribaltare i rapporti di forza a seconda del loro schieramento.

Non si capisce bene, poi, come si muoverà la pletora di partiti minori, che rappresentano interessi locali e tribali. In ogni caso, dai risultati delle elezioni in Libia si possono già trarre delle lezioni (finalmente positive) per l’Occidente. Prima di tutto, è stato smontato, almeno in Libia, lo schema del “si stava meglio quando si stava peggio”, usato sistematicamente dai pessimisti per la Primavera Araba. Non sempre la caduta di un dittatore “laico” porta necessariamente alla vittoria di forze fondamentaliste, in grado di far rimpiangere il tiranno. In Libia gli islamici, come abbiamo visto, si sono rivelati una forza secondaria nel corso della guerra e restano marginali anche nel dopo–guerra. L’incubo di vedere Belhaj al governo non si è realizzato.

Secondo: è stata smontata anche la paura di quegli americani che temevano di allevarsi la serpe in seno. Mahmoud Jibril ha un curriculum statunitense, a prova di bomba. Si è laureato all’Università di Pittsburgh (Pennsylvania) in scienze politiche, con un master in pianificazione strategica. È emerso, nel corso degli anni, come l’elemento più filo–occidentale nei vertici dell’ex regime. Nel 2009, nel pieno della distensione diplomatica fra Obama e Gheddafi, era a capo del Consiglio Nazionale per lo Sviluppo Economico di Tripoli, dove si è distinto per aver promosso un’agenda di privatizzazioni e liberalizzazioni. Forse troppo riformatrice agli occhi del colonnello, che lo destituì di lì a poco. L’ambasciatore americano a Tripoli, quell’anno, lo aveva definito come «Un interlocutore serio, che comprende il punto di vista degli Stati Uniti». Anche prima della rivoluzione, Jibril era autore di un progetto, “Visione della Libia”, che contemplava la trasformazione della dittatura in un governo democratico.

La terza paranoia sulla Libia, quella di assistere ad una sua frammentazione, è per ora scongiurata. Anche se non si può mai dire che l’ordine democratico duri a lungo. Jibril, personaggio noto all’estero e stimato dai libici, è comunque l’uomo migliore per tenere assieme il Paese. L’intervento Nato in Libia, insomma, non è stato controproducente: a Tripoli, oggi, si sta meglio di quando si stava peggio sotto Gheddafi.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:32