Terrorismo: la lunga

Ogni settimana il Pentagono sottopone al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, una lista di sospetti terroristi che costituiscono una minaccia per la sicurezza dei cittadini americani. Sessione dopo sessione, collegato in teleconferenza con i gli ufficiali della Difesa, Obama stesso decide quali terroristi debbano essere inseriti in una "kill list", una lista di persone che possono essere eliminate fisicamente, senza passare attraverso un'indagine, tantomeno un processo. Una volta inseriti nella "kill list", gli uomini selezionati devono solo sperare di non essere individuati. Droni (aerei senza piloti) americani daranno loro la caccia nello Yemen o in Somalia, lanciando loro un missile non appena individuati. La stessa cosa avviene anche nelle regioni tribali del Pakistan, con l'unica differenza che, in questo caso, è la Cia a fornire la "kill list". Ma è sempre il presidente, in ultima istanza, che firma la loro condanna a morte.

È questo, in sintesi, il nuovo modo di combattere il terrorismo dell'amministrazione Obama. In un lungo speciale del New York Times, pubblicato lo scorso 29 maggio, molto dettagliato e ricco di testimonianze di prima mano, apprendiamo come il presidente Obama abbia innalzato il livello di conflitto con il terrorismo, specialmente dopo la strage di Fort Hood (novembre 2009) da parte di uno psichiatra dell'esercito che decise di abbracciare l'Islam radicale. E soprattutto dopo due falliti attentati sul suolo americano: il tentativo di abbattere il volo su Detroit, nel Natale del 2009 e il fallito attentato a Times Square, il 1 maggio 2010. Il maggior successo della campagna di omicidi mirati è arrivato con l'uccisione dell'ideologo qaedista Anwar al Awlaki, nello Yemen, nel settembre 2011. Ma è anche l'azione legalmente più controversa: si è trattato della prima uccisione arbitraria di un cittadino americano, sul suolo di un Paese con cui gli Usa non sono in guerra.

Gli omicidi mirati hanno sollevato un grandissimo polverone di polemiche, come prevedibile. La critica più pertinente arriva da un repubblicano: l'ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld. In un'intervista, rilasciata ieri alla rivista NewsMax, l'ex ministro neoconservatore spiega che il vero punto debole di questa strategia sia nella scelta degli obiettivi. Obama, come Lyndon Johnson ai tempi della guerra nel Vietnam, si arroga il diritto di selezionare gli obiettivi e dar loro un ordine di priorità. «Non ho mai creduto che sia una buona idea quella di avere un presidente degli Stati Uniti che, personalmente, sceglie quali obiettivi colpire - dice Rumsfeld - Non è addestrato a farlo al meglio. Un presidente dovrebbe tracciare una linea politica generale, ma poi lasciare che siano i militari e l'intelligence a prendere le decisioni sugli obiettivi da colpire». Rumsfeld, che tuttora viene considerato dai pacifisti alla stregua di un criminale, non può fare a meno di notare che: «Le contestazioni che erano montate su Guantanamo e la detenzione di sospetti terroristi erano chiaramente meno fondate rispetto a quelle sugli omicidi mirati». Anche perché, da un punto di vista strettamente operativo, «Uccidere persone con raid di droni, comporta lo svantaggio, con cui Obama deve fare i conti, di non poter andare sul campo a raccogliere dati di intelligence, che sono, invece, di un'importanza enorme».

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:52