Elezioni in Serbia: ritorno al passato

La Serbia al voto ha mostrato una grande indecisione. Non ha scelto un presidente: il liberale Boris Tadic e l'ex nazionalista Tomislav Nikolic sono arrivati testa-a-testa, l'uno con il 26,7% e l'altro con il 25,5% secondo i dati forniti dalla commissione elettorale. Sarà il secondo turno a determinare il vincitore. Anche nelle elezioni legislative, per il rinnovo del Parlamento, il partito Ds di Tadic e l'Sns di Nikolic sono quasi alla pari. In questo caso è l'Sns ad avere un leggero vantaggio: 72 seggi contro i 67 del Ds. Fra i due litiganti, il terzo gode. E il terzo, nelle elezioni di domenica, è il vecchio Partito Socialista, post-comunista, guidato dall'ex ministro dell'Interno Ivica Dacic che lo ha ereditato da Slobodan Milosevic. L'exploit del Partito Socialista è la vera notizia di questa tornata elettorale. Dacic ha conquistato personalmente il 16% dei consensi nelle elezioni presidenziali, presentandosi come candidato indipendente. E il suo partito ha guadagnato 45 seggi, diventando ago della bilancia nella formazione del futuro governo. Come si spiega questa nostalgia per un regime che ha portato alla dissoluzione della Jugoslavia, dopo la bancarotta economica e otto anni di guerre balcaniche? Ivica Dacic, in veste di ministro, ha fatto tutto il possibile per smarcarsi da un passato impresentabile. Ha sostenuto il governo riformatore dei Ds e ha appoggiato Boris Tadic nel suo percorso difficile verso l'Unione Europea. Anche l'Sns, primo partito, è nato da una scissione da sinistra dall'Srs di Vojislav Seselj, l'ultra-nazionalista che diede legittimazione politica alle pulizie etniche in Croazia, Bosnia e Kosovo. Ma, sotto la guida di Nikolic, l'Sns si è dato un nuovo programma e una nuova identità, molto più liberale e persino filo-europea, un'opposizione moderna e democratica, non un partito di reduci e nostalgici.

Due sono i fattori per cui i serbi hanno premiato i partiti del loro passato: l'economia e il Kosovo. Il 24% è disoccupato, la crescita stenta e la gente ha paura di entrare in un'Unione Europea sempre più in crisi. Quando un sistema liberale è visto come l'origine del malessere, soprattutto in una nazione uscita solo recentemente dal comunismo, la reazione consueta è la duplice spinta verso il nazionalismo e il socialismo. Ed è quello che è puntualmente avvenuto. Sul Kosovo, la tensione è ancora molto forte. Anche a tredici anni dalla fine della guerra e a quattro dalla proclamazione unilaterale della sua secessione, la Serbia non lo riconosce come uno Stato indipendente, a costo di rallentare il processo di adesione all'Ue. Le municipalità a maggioranza serba in Kosovo hanno partecipato al voto nazionale per il Parlamento e per il Presidente, anche se non alle consultazioni locali (salvo due comuni dissidenti, Zvecan e Zubin Potok, che hanno votato ugualmente): il loro voto è risultato in un'infornata di consensi per i partiti più nazionalisti. L'elettorato si è trovato disorientato fra un Tadic e un Nikolic sempre più simili: il primo è filo-europeo, ma ha dovuto rinverdire la retorica nazionalista sul Kosovo per recuperare consensi; il secondo, più euroscettico, si è uniformato maggiormente all'europeismo anche se fa del Kosovo la sua bandiera distintiva. Alla fine è emerso Dacic, che è riuscito a presentarsi come un elemento di "diversità". Rifacendosi al passato socialista.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:35