Un salvagente per i profughi nordcoreani

Fino a ieri i profughi nordcoreani che tentavano di fuggire dalla fame e dalla repressione venivano arrestati in Cina e rimpatriati. Il regime di Pechino non aveva mai riconosciuto loro lo status di "rifugiati", ma di "migranti economici". Da ieri questa pratica è stata almeno sospesa dal regime di Pechino. 

Lo rivela il quotidiano nipponico Yomiuri, citando in forma anonima due funzionari cinesi della dogana. «Quando un rifugiato è sottoposto a rimpatrio forzato è la fine della sua vita e non possiamo più ignorarlo», ha detto un responsabile della provincia di Liaoning, che confina con la Corea Nord. Secondo un'altra fonte cinese, sempre anonima, la decisione non sarebbe affatto dovuta alle critiche sudcoreane o a motivi umanitari. A quanto risulta è legata al fatto che la Cina, unico alleato della Corea del Nord, non era stata informata in anticipo sul lancio (per altro fallito) del nuovo missile balistico nordcoreano, avvenuto lo scorso 12 aprile. Sarebbe, dunque, in corso un nuovo braccio di ferro in Asia orientale. Il 16 aprile, Pechino ha aderito alla risoluzione di contro il test nordcoreano, esprimendo (per la prima volta), una «condanna con forza» di una «grave violazione» della precedente Risoluzione 1718. 

Il cambio di atteggiamento è testimoniato anche dai toni degli ultimi articoli apparsi sulla stampa cinese. Per esempio, in un editoriale del Global Times (in lingua inglese), leggiamo che: «La Cina non deve "alleviare le ferite" della nuova amministrazione nordcoreana». Il lancio del missile del 12 aprile, ha evidentemente innervosito tutti, amici e nemici della Corea del Nord. È stato letto come una provocazione militare gratuita, per di più avvenuta all'indomani di nuovi accordi con gli Stati Uniti e in un periodo in cui pareva prossima la ripresa dei Colloqui a Sei sul nucleare coreano, un'iniziativa diplomatica di lunga durata di cui la Cina si fa promotrice.

Paradossalmente, la rinnovata tensione in Asia orientale, è una manna dal cielo per i profughi nordcoreani. Per loro, la fuga verso la Corea del Sud è praticamente impossibile, considerando che quel confine è l'area più sorvegliata e militarizzata al mondo. Devono, per forza, passare la frontiera con la Cina. Ma fino a ieri, rischiavano di finire nelle fauci dell'alleato del loro oppressore. Devono far perdere le loro tracce e ottenere, il prima possibile, un transito per la Corea del Sud. Il rimpatrio nel Nord significa la morte: l'ultimo caso conosciuto in Occidente è quello di Jeong Dae Sung, la moglie Lee Ok Geum e un amico di famiglia, Song Gwang Cheol. I tre, appena rientrati in patria, sono stati fucilati nel gennaio del 2010. Non solo: le loro famiglie sono state deportate. Normalmente i fuggitivi che falliscono la loro impresa vengono condannati a periodo che vanno dai 7 ai 15 anni di detenzione nei "campi di rieducazione". In base alle poche statistiche disponibili sul fenomeno, sappiamo solo che in Cina sono transitati dai 20 ai 30mila rifugiati nel solo 2008. Nel 2004 uno studio della Commissione dei Diritti Umani dell'Onu rivelava che almeno il 70% dei rifugiati fosse costituito da donne, spesso vittime di una vera e propria tratta delle schiave: subivano abusi in Cina e poi venivano rispedite nella Corea del Nord, dove venivano uccise o "rieducate".

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:39