Ma l'islamizzazione è un rischio

Tutta la Norvegia ha assistito ieri all'inizio del processo al mostro Anders Behring Breivik, lo stragista di Utoya, responsabile di 77 morti. Il 22 luglio 2011 fece detonare un'autobomba di fronte agli uffici del governo norvegese, poi massacrò scientemente i ragazzi del raduno dei giovani laburisti nell'isola di Utoya.

Fu una strage immane, la peggiore della storia norvegese recente, come ha ricordato ieri la pubblica accusa, Inga Bejer Engh. Nel corso del processo non è affatto apparso confuso, tantomeno pentito. Ha salutato il pubblico con il pugno chiuso (il destro, però). Non ha riconosciuto la legittimità della corte, dichiarandola «Nominata da autorità che vogliono instaurare un regime multiculturalista». Si dichiara innocente, anche se rivendica il duplice attentato del 22 luglio. Che definisce «un'azione di autodifesa». Come ha dichiarato prima dell'inizio del processo, vuole utilizzare il clamore mediatico per promuovere le sue tesi politiche, contenute nel suo lungo "Manifesto 2083", in cui pianifica una guerriglia lunga 70 anni per liberare l'Europa dal multiculturalismo.

I norvegesi sono divisi sulla doppia perizia psichiatrica effettuata su Breivik. Un primo esame lo ha definito «incapace di intendere e di volere». Ma una seconda perizia, le cui conclusioni sono state pubblicate la settimana scorsa, lo considera perfettamente sano di mente. A processo concluso, se dichiarato incapace, Breivik verrebbe condannato a una struttura psichiatrica. Se giudicato mentalmente sano, finirebbe in carcere. Un altro processo parallelo, nell'opinione pubblica, ha però già spiccato la sua sentenza, senza aver bisogno di periti o giudici: la paura dell'islamizzazione è stata condannata senza appello. E ora, nel dibattito pubblico norvegese, viene considerata alla stregua di una paranoia collettiva, anche molto pericolosa se portata alle sue estreme conseguenze. Breivik era un ammiratore del blogger "Fjordman", uno dei più convinti sostenitori della necessità di difendere la civiltà occidentale dall'islamizzazione. Leggeva regolarmente gli scritti di conservatori americani quali Robert Spencer e Daniel Pipes, voci critiche del multiculturalismo e osservatori impegnati a denunciare la barbarie del radicalismo islamico. Breivik, che non è un "fondamentalista cristiano" (come era stato erroneamente definito dalle prime cronache sul suo attentato), né un "neofascista" (nei suoi lunghi scritti dichiara di voler tornare nel passato per uccidere Hitler), cita rispettabili filosofi liberali come sue fonti di ispirazione. Nel suo "testamento", scritto poche ore prima dell'azione, aveva riportato una fase di John Stuart Mill. Un liberale classico, non certo un predicatore di odio. Tutti questi elementi culturali proverebbero una sola cosa: la confusione teorica, se non mentale, di un ragazzino norvegese esagitato, che cita liberali e conservatori nonviolenti per provocare 77 morti, ha paura dell'islamizzazione, ma stermina decine di suoi connazionali laici. Invece, nel dibattito norvegese, Fjordman e Spencer, Pipes e magari anche Stuart Mill si sono magicamente trasformati in maestri dell'odio di destra, contro un pericolo di islamizzazione giudicato "inesistente", semmai frutto di "islamofobia".

Daniel Pipes e Robert Spencer non sono mai stati dei propugnatori della tesi secondo cui "tutto l'Islam è terrorista". Pipes, soprattutto, denuncia i pericolo dell'islamismo (o islamo-fascismo), ideologia che sfrutta una base religiosa per instaurare un regime totalitario. È sempre stato un sostenitore della tesi secondo cui il problema dell'islamismo debba essere risolto principalmente all'interno dell'Islam. Semmai, sia Spencer che Pipes, denunciano quotidianamente il pericolo e la violenza reale dell'ideologia islamica radicale. Un fenomeno ben osservabile, non solo in Iraq (dove le vittime sono soprattutto civili musulmani, uccisi da islamisti), in Nigeria, nelle Filippine, ma anche nella stessa Europa. Mentre inizia il processo a Breivik in Norvegia, nella vicina Danimarca inizia il processo a carico di quattro musulmani svedesi (di cui tre cittadini della Svezia) accusati di aver pianificato un attentato nel 2010 contro la sede del Jyllands Posten, il quotidiano che 6 anni fa pubblicò le vignette su Maometto. Il processo è solo l'ultimo episodio di una serie di attentati, finora falliti, contro il quotidiano scandinavo e i vignettisti "blasfemi". Mohamed Geele, somalo, tentò di uccidere il disegnatore Kurt Westergaard con un'ascia, penetrando in casa sua nel gennaio del 2010. Lors Dukayev, ceceno, tentò di inviare una lettera-bomba al Jyllands Posten nel settembre del 2010. E fallì solo per la sua maldestria, ferito dal suo stesso ordigno. La blogger Pamela Geller, nel maggio del 2011 (due mesi prima della strage di Utoya) rivelava, documenti e testimonianze alla mano, che in Norvegia, tutti gli stupri (aumentati esponenzialmente negli ultimi 5 anni) fossero opera di giovani immigrati islamici. Definiti, nel linguaggio politically correct dei media europei, semplicemente come "non occidentali". E a prevedere un'inevitabile "scontro di civiltà" è un musulmano norvegese (moderato), Walid al Kubaisi: «In molte delle aree in cui i musulmani sono maggioranza, i norvegesi non si sentono più a casa. Si sentono minoranza in un Paese islamico». E sullo scontro di civiltà afferma che: «Qualcosa avverrà. Non sono un profeta, ma lo sento».

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:28