Il dragone cinese che cambia pelle

Campagna addio. Vado a vivere in città. Sono sempre di più i cinesi che la pensano così - e che agiscono di conseguenza - abbandonando i più o meno remoti luoghi natii per dirigersi verso le megalopoli che costellano le 31 province dell'Impero di mezzo. Un esodo di massa che alla fine del 2011 ha segnato un importante traguardo: la percentuale dei residenti nelle metropoli ha superato, per la prima volta nella storia della Cina, quella degli abitanti nel resto dello Stato. Che detto in cifre significa che più della metà di 1 miliardo e 350 milioni cinesi è ormai urbanizzato. 

E se il dato va controcorrente rispetto all'epopea di un Paese che per millenni è stato plasmato dalle tradizioni e dalla cultura rurale, è invece perfettamente in linea con i trend demografici delle nazioni in via di sviluppo e marca una tendenza destinata a farsi sempre più netta: entro il 2030 - secondo i dati della Banca Mondiale illustrati al vertice di Boao - ben il 70% dei cinesi vivrà nelle aree urbane. E le implicazioni di questo cambio di residenza saranno epocali, non solo dal punto di vista sociale ed ambientale ma soprattutto economico. 

 

IL MADE IN CHINA FINISCE QUI

Secondo le proiezioni della Banca Mondiale, l'espansione non interesserà tanto le città della costa - come Shangai o Shenzen - già abitate al limite della saturazione, ma piuttosto metropoli della Cina interna come Chengdu (capitale della provincia sudoccidentale dello Sichuan), e Chongqing (municipalità centro-meridionale). Qui il boom demografico sta già dando prova di un enorme impatto economico, dimostrando una forte capacità di attrazione di capitali stranieri. Chongqing, che ancora nel 2007 era al ventiduesimo posto su trentuno per livello di investimenti esteri, nel 2011 ha superato Pechino. E le previsioni della "Economist Intelligence Unit" sono di vederla schizzare in quarta posizione, in testa anche a Shanghai e Tientsin, entro il 2014.

Insomma, in una fase economica non facile nemmeno per la Cina - penalizzata nell'esportazione dalla crisi dei mercati avanzati - l'urbanizzazione dà una mano. E dimostra l'infondatezza di tutte quelle analisi che ipotizzavano un calo degli investimenti nel Celeste Impero dovuto in parte all'aumento del costo del lavoro (dal 2007 ad oggi i salari sono aumentati in media di un 12% annuo), e in parte ai crescenti impedimenti posti dal governo nell'accesso ad alcuni compartimenti chiave del secondario, come la produzione di scarpe, abbigliamento e giocattoli. Tutti settori a basso valore aggiunto, che nell'ultimo piano quinquennale vengono espressamente disincentivati allo scopo di ridurre la dipendenza da un mercato volatile e che di conseguenza stanno già abbandonando il Dragone per dirigersi altrove: non a caso il Bangladesh ed il Vietnam negli ultimi due anni hanno visto un incremento del manifatturiero del 6%.

 

UN NUOVO MODELLO ECONOMICO

Ma che cosa rende le megalopoli cinesi tanto attraenti per gli investitori stranieri? In primis va ricordato che l'intera Cina, per il basso costo della manodopera e lo stato relativamente avanzato delle infrastrutture, è da tre decenni uno dei principali recettori al mondo di fondi esteri. E ci sono tutte le premesse per pensare che continuerà ad esserlo. A cambiare sarà semplicemente la destinazione del capitale, che si muoverà tenendo conto dei nuovi sviluppi demografici ma anche, ed obbligatoriamente, delle linee guida emesse da Pechino. 

Nell'attuale piano di programmazione economica quinquennale (2011-2015), il governo cinese esplicita la volontà di dirigere i capitali in entrata verso quei settori ad alto valore aggiunto ritenuti prioritari per lo sviluppo del Paese: le biotecnologie, le energie alternative, l'informatica e la sanità. Per contro, si disincentivano gli investimenti nel secondario con la rimozione delle agevolazioni fiscali in aree come Pudong (il megaporto di Shanghai) e Shenzen. Il messaggio è chiaro: non si è più premiati per "dove" ma per "come" e per " che cosa" si produce. Ed è una rivoluzione che segna la morte del "made in China" per come lo conosciamo: quello a basso costo, dove quantità e qualità vengono spesso, erroneamente, ritenute sinonimi. Il capitale estero smette così di essere visto come fonte di finanziamento e come mezzo per creare nuovi posti di lavoro e diventa un modo per importare conoscenza, innovazione e tecnologie avanzate in alcuni settori strategici. E nelle città.

 

MEGALOPOLI, MODERNO ELDORADO

Bacini urbani sempre più ampi non rappresentano solo una riserva di manodopera facilmente reperibile ma racchiudono un esercito di potenziali consumatori a cui fornire beni e soprattutto servizi. Chi investe in Cina oggi non lo fa nell'ottica di esportare ma per vendere su un mercato interno sempre più ampio, liquido e concentrato nelle grandi città.

Lo hanno capito in fretta alcune multinazionali come Acer, Unilever, Microsoft, Bayer. Acer, insieme a colossi come Asustek e Quanta, ha di recente aperto uno stabilimento proprio nella municipalità di Chongqing che, con i suoi 32 milioni di abitanti, è candidata a raggiungere entro il 2015 l'obbiettivo di produrre un terzo dei computer portatili del mondo. Unilever nel 2002 ha piazzato uno dei suoi più grandi impianti nella provincia orientale dell'Hanui, scommettendo sulla domanda interna, ed oggi esporta il 10% della produzione mentre tutto il resto viene commercializzato nel Paese. La Crown, un'azienda americana che produce lattine per bibite, si è installata Zhengzhou. 

Intel ha spostato da Shanghai a Chengdu l'impianto per testare ed impacchettare i propri chip: il costo del lavoro là è più basso e l'accesso al mercato interno più rapido. Ma non tutto è rose e fiori. I cinesi non possono permettersi di vivere di rendita sfruttando il fatto di essere "tanti". La Microsoft, che in Cina è ben presente, ha chiesto, ed ottenuto, di poter agire sul sistema di istruzione di un Paese che ogni hanno sforna milioni di laureati che aspirano ad impieghi ben remunerati ma hanno una preparazione del tutto insufficiente ad incontrare i requisiti del mercato.

Il governo, particolarmente sensibile al richiamo del business (e dell'occupazione), ha permesso all'azienda americana di avviare una partnership con i ministeri dell'Istruzione e dell'Industria e con la Commissione nazionale per le Riforme e lo Sviluppo al fine di arricchire i programmi scolastici e formare adeguatamente non solo gli studenti di ogni grado (dalle elementari all'università), ma anche i loro insegnanti. Una manovra che in Italia non sarebbe nemmeno ipotizzabile. E che spiega almeno un po' perché la Cina cresce e noi recediamo.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:41