Washington scappa da Gerusalemme

«Nessuna opzione è esclusa». Così il Presidente Obama ha più volte rassicurato nelle ultime settimane il Primo Ministro Israeliano Netanyahu e quanti in America tengono alla sopravvivenza dello Stato Ebraico e perciò temono che presto l'Iran potrebbe essere in possesso dell'arma atomica. La questione è importante: il Direttore Generale dell'Agenzia Atomica delle Nazioni Unite (AIEA) da mesi ormai avverte dell'avanzamento da parte di Tehran nell'arricchimento dell'uranio e del progetto nucleare iraniano che ha tutta l'aria di avere finalità militari. Da anni in America si parla di un'azione militare contro l'Iran, tesa a distruggere gli impianti come quello di Qom o Bushehr, dove presumibilmente gli scienziati iraniani portano avanti il piano atomico degli ayatollah. 

La maggioranza degli statunitensi (secondo un recente sondaggio realizzato dall'Ipsos Public Affairs) sosterrebbe l'idea di un intervento americano, con il 53% di favorevoli ed il 39% di contrari. La questione è però delicata: gli USA sono stati impegnati, negli ultimi nove anni, in due conflitti mediorientali, l'uno, quello iracheno, conclusosi solo pochi mesi fa con il ritiro delle truppe ed il passaggio di consegna della responsabilità della sicurezza del Paese alle forze locali. La ritirata dall'Afghanistan, a meno di sorprese, dovrebbe completarsi invece nel 2014, ed Obama non sembra certo intenzionato ad imbarcarsi in un'impresa che potrebbe mettergli contro l'elettorato liberal (negli ultimi anni slittato su posizioni più o meno marcatamente anti-israeliane) di cui ha essenziale bisogno per la campagna per la rielezione del prossimo autunno. 

Di certo, per ora, c'è solo la granitica certezza che Israele non permetterà che l'Iran, regime ostile, negatore dell'olocausto e apertamente antisemita, raggiunga la capacità di produrre tecnologia nucleare militare. Qui giace la distanza tra la posizione di Washington (così come espressa da Obama nel suo discorso di poche settimane fa all'AIPAC, una lobby filo-israeliana) e quella di Gerusalemme: la prima sostiene di voler impedire che Tehran si doti dell'arma atomica, la seconda che possa anche solo arrivare alla tecnologia necessaria per produrla. La distanza, più che lessicale, è sostanziale e, soprattutto, temporale. 

Secondo Jeffrey Goldeberg, reporter e analista della storica rivista "The Atlantic" che ha parlato recentemente con membri di alto rango del governo e dell'esercito israeliano, non solo Netaniìyahu è deciso allo strike, ma è pure convinto che questo porterà all'ascesa di un nuovo movimento di protesta che riuscirà a rovesciare il regime khomeinista. Goldberg, sionista di sinistra, si è più volte espresso contro un attacco preventivo tanto da parte di Israele che degli Stati Uniti, convinto che sia necessario dare "un'ultima chance alle sanzioni". Ciò nonostante si è detto ormai sicuro che lo strike dovrebbe partire "nel prossimo futuro" poiché i generali della Sicurezza Nazionale Israeliana credono che, se indirizzato ad un numero ristretto di siti (sei o otto), non solo comprometterebbe il programma nucleare, ma non provocherebbe alcuna reazione diretta da parte dell'Iran, mentre è data per scontata la raffica di razzi provenienti dal Libano Meridionale, roccaforte degli Hezbollah, il maggior alleato arabo della Repubblica Islamica.

Il temporeggiare di Obama sarebbe stato causato anche da una simulazione riservata dell'esercito statunitense, arrivata non si sa come nelle mani del New York Times, e che prevederebbe, in caso di intervento israeliano, una serie di eventi "catastrofici" e la morte di centinaia di americani. Dopo l'attacco, difatti, Tehran reagirebbe colpendo le navi della marina militare statunitense presenti nel Golfo Persico, al che gli Stati Uniti non potrebbero non rispondere, estendendo il conflitto a Libano, Iraq ed Afghanistan, ovvero ovunque vi siano obiettivi americani nella regione. In sintesi, il "war game" dell'esercito statunitense metterebbe in guardia dalla natura "incontrollabile di un attacco israeliano". La pubblicazione di questa simulazione ha provocato molte critiche da parte degli opinionisti filo-israeliani che hanno accusato la Casa Bianca di aver fatto trapelare tali informazioni volontariamente, per mettere pressione a Gerusalemme.

Romney, Santorum e Gingrich, i tre candidati conservatori per le primarie repubblicane, hanno, sulla possibilità che l'Iran possa dotarsi della tecnologia nucleare, la medesima opinione: tutto deve essere fatto per impedirlo. Santorum, che aveva lanciato una campagna per il cambio di Regime in Iran già quando sedeva al Senato, costringendo l'allora Presidente Bush ad invitarlo ad abbassare i toni, ha recentemente rilasciato un nuovo video per la campagna elettorale dove toni apocalittici accompagnano le immagini di Ahmadinejad, Presidente della Repubblica Islamica Iraniana. Fuori dal coro il libertario Ro Paul, che ha sostenuto la necessità di tagliare ogni aiuto finanziario ad altri Paesi, compreso Israele, che sull'appoggio statunitense ha costruito la forza militare che ha fatto da deterrente agli attacchi dei Paesi Arabi confinanti sin dal 1973. Paul è contrario a qualunque intervento americano contro l'Iran e non si è detto preoccupato da un suo raggiungimento dell'atomica.

Favorevoli all'intervento congiunto di Israele e Stati Uniti si possono trovare in gran numero tra le fila dei neoconservatori, gli ideologi che durante gli anni centrali della presidenza Bush Jr riuscirono a impostare la politica estera americana sulla rotta del sostegno, diretto e indiretto, ala diffusione della democrazia nel mondo. Non tutti i neocon, però, sono d'accordo: Michael Ledeen, già allievo di De Felice e studioso di Machiavelli, da anni sostiene la causa del cambio di regime in Iran, che, però, deve passare non per un intervento armato per un aperto e pieno sostegno all'opposizione iraniana. Contrario ad un intervento (sia esso israeliano, statunitense o congiunto) è anche Fared Zakaria, conduttore per la CNN, capofila della nuova "scuola realista" in politica estera, che sostiene che un Iran nucleare è negli interessi dello stesso Israele, poiché porterebbe ad un rinnovato equilibrio nella regione. A Zakaria hanno risposto, l'uno direttamente, l'altro indirettamente, Clifford May, Presidente della Foundation for Defense od Democracies e Niall Ferguson, professore di storia ad Harvard e editorialista di Newsweek. May ha fatto notare al "perplesso Zakaria che un Iran nucleare sarebbe un disastro non solo per Israele, ma per la stessa America, poiché causerebbe una nuova corsa al nucleare nella regione più tumultuosa del mondo, il Medio Oriente, con l'Arabia Saudita in testa. Ferguson sostiene che le tesi contro l'intervento come quelle di Zakaria si basano su presupposti deboli, come la presunta razionalità del Regime Iraniano, e avverte che, sebbene la guerra sia sempre un male «talvolta una guerra preventiva può essere un male minore rispetto ad una politica di appeasement».

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 17:40