Con i democrats il debito alle stelle

Il più grande problema del Presidente degli Stati Uniti Barack Obama non è Mitt Romney né tantomeno Rick Santorum. Nonostante le primarie del Gop proseguano a ritmo serrato e manchino pochi mesi alla designazione del prossimo avversario dell'ex senatore dell'Illinois, il competitor per lo Studio ovale non sembra preoccupare affatto il Presidente in carica. Il fantasma che perseguita Obama è l'economia. L`America non è ridotta alla fame perché è laboriosa, fantasiosa ed ha ancora un sistema mobile e flessibile, però il suo debito nazionale è aumentato in questi tre anni molto di più che negli otto anni delle due presidenze di George W. Bush. 

A dirlo è una fonte assai più vicina ai liberal che ai conservatori, la CBS, la quale ha citato con una certa enfasi, in questi giorni, i dati forniti quasi di nascosto dal dipartimento del tesoro americano. Se durante i due mandati di George W. il deficit era aumentato di 4.899 trilioni (ovvero di 4.899 mila miliardi di dollari), in poco più di un triennio è salito di 4.939 trilioni. Così è passato da 10.626 trilioni a 15.666 trilioni. 

Obama all'inizio della sua presidenza aveva più volte accusato il predecessore di essere la causa dei dissesti finanziari americani per via delle due interminabili guerre che aveva aperto sul fronte mediorientale e del suo programma sanitario Medicare.

Ma poi si è astenuto dal lanciare attacchi a raffica contro il povero Bush, non solo per rispetto, ma soprattutto perché i conti cominciavano a non tornare neppure a lui. Aveva promesso che grazie ai suoi sforzi il debito sarebbe gradualmente sceso, e invece alla fine del 2012 raggiungerà i 16.3 trilioni di dollari per poi prendere una fuga incontrollabile: secondo gli esperti, nel 2022 sarà di 25.9 trilioni. 

Lo slogan di Obama, anche in campo economico, è "Win the future" (Vinci il futuro), ma il futuro rischia di essere beffardo con lui e con gli States, anche perché i nuovi tempi non vengono più educati ai sacrifici e al risparmio, ma si annunciano gonfi di altri contributi governativi, secondo una politica che per qualcuno ha perfino modificato il Dna liberista dell`America. 

Molti economisti vacillarono quando fu annunciato per il 2010 un budget di 3,5 trilioni; altri storsero la bocca quando venne approvato uno stimulus package biennale di 787 milioni. Senza contare i 275 bilioni per le case, un trilione alle banche e varie altre spesucce che avevano portato il deficit a 1,75 trilioni del 2009, quadruplicandolo rispetto al 2008. Bush aveva sgarrato con il Medicare (l`assistenza sanitaria pubblica agli anziani), Obama rischia di sgarrare con la sua rivoluzionaria riforma della salute. Aveva assicurato che essa avrebbe fatto risparmiare qualche miliardo alla federazione, ma secondo le ultime stime comportera` spese per un altro trilione. 

La politica economica di Obama - è bene dirlo subito - non è folle. Questo presidente non ha le mani bucate, tuttavia mira a produrre nell`ossatura finanziaria americana cambiamenti genetici che sono costosi e che non tutto il paese vuole. Anzi, che lo preoccupano sempre più. 

È proprio per questi timori che sono nati i Tea Party, strani gruppuscoli di base, molto radicati (come ricorda il Washington Post) nella realtà degli States, che saranno anche strumentalizzati da ottusi conservatori, ma non hanno tutti i torti quando rimproverano al presidente di avere esagerato. Molti di questi gruppi non hanno ambizioni politiche. Si limitano ad esaminare la crisi economica e l`aumento della disoccupazione e dei prezzi per chiedere un mutamento di rotta. È stato proprio il Washington Post, un quotidiano che (come la Cbs)  è più liberal che repubblicano, a farci conoscere i misteri dei tanti rivoli di questo gigantesco movimento, ricordando che in fondo vuole soprattutto il risanamento economico del paese. 

Della stessa opinione è anche l'ex Presidente Bill Clinton, il quale ancor prima di questa analisi, aveva più volte affermato d`istinto che i Tea Party, almeno per il 20 per cento, potrebbero essere democratici. Quindi non li ha creati Sarah Palin: semmai l'ex governatore dell'Alaska ha saputo cavalcarli con un certo cinismo. 

Si può dedurre che se l'economia americana dovesse migliorare davvero, tutti questi gruppetti sparirebbero, perché le loro radici politiche sono più o meno irrilevanti. E che se Obama riuscisse a mantenere la sua parola sulla riduzione del deficit verrebbe certamente rieletto. È opinione diffusa che la sua rielezione sia quasi certa: tuttavia chi non lo vuole alla Casa Bianca si appiglia soprattutto all'enorme disavanzo economico che si è prodotto durante la sua prima presidenza e che crescerebbe considerevolmente con la seconda. Secondo stime attendibili, nel 2016 (ultimo anno dell'eventuale nuovo mandato), il debito nazionale salirebbe a 20 trilioni, con un incremento dell'87 per cento (ovvero di 9,34 trilioni) durante le due presidenze. 

È anche per questo che nei suoi tanti discorsi il presidente preferisce non parlare più di conti. Aveva previsto una riduzione del deficit a 901 bilioni nel 2012 e poi disavanzi dai 500 ai 700 bilioni nei dieci anni successivi. 

Ma non è così, non può essere così, perché lo stato che sogna mal si accorda con una politica di risparmio governativo. E anche perché forse non gli dispiace il cosiddetto "Grande governo", ovvero un governo che si intromette nelle vicende economiche dei singoli, come un padre premuroso e onnipresente. 

Però il principale avversario del presidente sarà proprio quell'America cui il "Grande governo" non piace, perché lo considera il feticcio di un'Europa in crisi, un modello sballato che porta fatalmente a uno sfondamento vistoso del rapporto debito pubblico-prodotto interno lordo. Adesso, negli Usa, il debito nazionale supera il Pil del cento per cento. Non siamo troppo lontani da quel 121% che era lo sfondamento alla fine della seconda guerra mondiale. Ma allora gli Stati Uniti avevano sconfitto Hitler. Oggi rischiano di tradire gli ultimi ammonimenti di  Adam Smith.

Aggiornato il 01 aprile 2017 alle ore 16:50