A due anni, la svolta impressa da Javier Milei restituisce ordine all’economia e fiducia a una società che aveva smarrito il proprio orizzonte.
Per comprendere ciò che sta accadendo nel Paese del Río de la Plata, occorre liberarsi dalle categorie abituali con cui, per anni, si è descritta l’Argentina. Abituati a raccontarla come una terra condannata a oscillare fra crisi cicliche e ripartenze effimere, non avevamo più occhi per coglierne la stanchezza profonda, la sua richiesta inespressa di una svolta reale. Da tempo la nazione sudamericana viveva sospesa fra promesse non mantenute, monete che evaporavano, governi che scambiavano la spesa per crescita, cittadini che cercavano rifugio nell’informalità. Una musica malinconica che sembrava destinata a non finire mai.
Poi è arrivato Javier Milei.
Non come un protagonista improvvisato, ma come qualcuno che aveva annunciato per anni ciò che sarebbe accaduto se il Paese non avesse cambiato strada. Le sue battaglie accademiche, le polemiche televisive, gli studi sulla dinamica del capitale e sui fallimenti della pianificazione non erano le eccentricità di un teorico isolato, esprimevano invece l’elaborazione di un uomo che aveva compreso in anticipo ciò che tutti avrebbero presto visto: senza un limite al potere, senza moneta stabile, senza regole chiare, ogni società è destinata a implodere.
Il suo ingresso alla Casa Rosada ha segnato quindi l’inizio di un racconto nuovo, dove il protagonista non è il Palazzo ma la realtà. Il Presidente ha portato con sé un linguaggio che l’Argentina non sentiva da decenni: sobrio, netto, antiretorico. Un linguaggio che non promette ciò che non può essere mantenuto, che non addolcisce i problemi per guadagnare tempo, che non illude la società con scorciatoie. Ha parlato di moneta solida come fondamento della civiltà economica, del limite come condizione della libertà, dell’ordine spontaneo come motore della prosperità. E quelle parole, inizialmente accolte con timore, hanno trovato terreno fertile in una nazione stanca di essere ingannata.
L’Argentina è cambiata perché Milei ha rimesso la realtà al centro.
La fine dell’emissione compulsiva non è stata una decisione tecnica: è stata una dichiarazione morale. Dire alla moneta “basta” significava dire “basta” all’inganno di un potere che distribuiva ciò che non possedeva, addebitando al futuro i costi dell’illusione presente. L’inflazione ha iniziato a scendere non per magia, ma perché finalmente era stato interrotto il meccanismo che la alimentava. Parallelamente, la riduzione dello Stato non è stata un gesto iconografico, è stata invece un atto di restituzione. Troppi ministeri, enti e mani che decidevano, modulavano, rallentavano. In un solo anno, la macchina amministrativa ha ritrovato un confine e la società un respiro. I blocchi stradali, divenuti simbolo di un Paese paralizzato, sono scomparsi; il clima di veto permanente che impediva a chiunque di lavorare o muoversi si è dissolto, restituendo dignità alla vita quotidiana.
Ma il cuore della rivoluzione mileista è nella deregolazione.
Le migliaia di norme abrogate non sono un dettaglio tecnico: sono la liberazione di un’energia compressa per troppo tempo. L’idea, centrale nel pensiero che il leader libertario ha studiato per anni, è semplice e potente: l’ordine migliore non è quello progettato dall’alto, al contrario, è quello che emerge quando non si ostacolano le interazioni spontanee. L’economia ha iniziato a muoversi come un organismo che ritrova la mobilità dopo una lunga immobilizzazione: lentamente all’inizio, con crescente intensità poi.
E gli indicatori sociali lo confermano. La riduzione degli omicidi di donne non è un miracolo statistico, è la conseguenza diretta di un sistema più chiaro, più leggibile, più coerente. Dove le istituzioni non vacillano, la violenza si ritrae. Dove le regole valgono per tutti, il più debole non è abbandonato.
Naturalmente, nessuna rinascita avviene senza dolore. L’Argentina ha affrontato sacrifici importanti, e altri ne affronterà. Questa volta però il dolore non è il prezzo di un fallimento, bensì il travaglio di una ricostruzione. E gli argentini lo hanno capito: si può sopportare la fatica, se si intravede un approdo.
Ed è proprio questo il punto.
Dopo molti anni, finalmente, una Nazione che per generazioni ha intonato Don’t cry for me Argentina e sembrava destinata all’autocommiserazione, ha riscoperto l’orgoglio di chi sceglie la strada più ardua perché è l’unica autentica possibile. In questa nuova stagione sembra emergere il significato più profondo di quelle parole celebri: he truth is I never left you: la verità è che la sua energia non l’aveva mai abbandonata. Come nella storia raccontata nella canzone, la forza del Paese era rimasta silenziosa durante i suoi “giorni selvaggi”, la sua “esistenza inquieta”, una forza che aveva continuato a mantenere la promessa di rialzarsi nonostante tutto. Era lì, soffocata, in attesa che qualcuno le restituisse spazio e ordine.
Milei non ha offerto consolazioni né scorciatoie: ha chiesto responsabilità, indicato la libertà e restituito condizioni per costruire futuro.
E gli Stati che oggi affrontano le stesse rigidità dovrebbero osservare con attenzione ciò che accade dall’altra parte dell’Atlantico. In molte democrazie mature la spesa pubblica continua a crescere più dell’economia reale, le regolazioni si moltiplicano senza misura, ogni crisi diventa un pretesto per ampliare il raggio d’azione del potere. L’esperimento argentino ricorda a tutti questi Paesi che nessuna società si salva chiedendo sempre nuovi interventi: si salva quando ricomincia a fidarsi delle proprie energie e restituisce spazio all’iniziativa delle persone.
Ecco, dunque, il significato profondo di ciò che il leader della Casa Rosada, l’uomo che ha rotto la grammatica del potere, ha iniziato: non una riforma tecnica né un aggiustamento amministrativo, ma un ritorno alla consapevolezza che il destino di un popolo non nasce nei corridoi del potere, ma nella libertà degli individui di agire, scegliere, creare.
Aggiornato il 15 dicembre 2025 alle ore 10:20
