Se qualcuno in Italia avesse ancora dei dubbi circa il fatto che la guerra sia stata espulsa dall’immaginario collettivo potrebbe leggere, per diradarli, un recente sondaggio da cui si evince che la maggioranza dei giovani (il 68 per cento) in caso di pericolo per il nostro Paese non sarebbe disponibile ad arruolarsi per difendere i confini nazionali. Nulla che già non si sapesse. Del resto, il sentire comune non è mai il prodotto di una concertazione degli astri, ma nasce e si sviluppa in ragione di non trascurabili vissuti storici. Le grandi ferite del Novecento, ovvero due devastanti conflitti mondiali, la retorica militarista fascista, la guerra civile 1943-1945, una cultura politica egemone incentrata sul pacifismo (legata, perlopiù, alla sinistra antagonista e al cattolicesimo sociale) hanno fatto maturare la convinzione che qualsivoglia ricorso alla macchina militare sia da considerare moralmente discutibile. Tali motivi, insieme alla protezione garantita dagli Stati Uniti dal Secondo dopoguerra ad oggi (destinata a finire a breve) hanno contribuito a trasformare nel nostro Paese la “pace protetta” in kantiana “pace perpetua”.
La realtà, però, soprattutto negli ultimi anni, si è incaricata di dimostrare quanto tutto ciò appartenga al regno delle illusioni. Infatti, un pesante conflitto si sta consumando da quattro anni alle porte dell’Unione europea, l’area del Mediterraneo – il confine Sud dell’Ue – diventa sempre più un luogo instabile, la tensione in Medio Oriente rimane alta, per menzionare solo alcune delle tante situazioni difficili. La rimozione dell’idea di guerra dalla coscienza collettiva ha, da un lato, protetto l’Italia da sbandate di tipo militaristico, dall’altro, ha portato il Paese verso una condizione di estrema vulnerabilità a fronte di un ordine mondiale sempre più instabile e pericoloso. Il rischio per l’Italia, in un contesto siffatto, è quello di non essere in grado d’interpretare correttamente gli avvenimenti internazionali né di capire in tempo utile quali possano essere le giuste strategie da mettere in campo per proteggere i propri interessi.
L’area sovranazionale, come ricorda Raymond Aron, è per sua natura uno “spazio senza giudice”. La storia non conosce leggi di progresso che mettano al riparo dalla violenza, mentre il sistema internazionale rimane privo di un’autorità (nonostante gli sforzi compiuti fin qui) in grado d’impedire l’uso della forza. Il che significa che la pace rimane un’entità fragile in qualsiasi momento storico. In tal senso, occorre avere contezza che essa è una costruzione sempre provvisoria e che richiede senso di responsabilità sia da parte della classe politica che sul versante della pubblica opinione. Per dirla ancora con le parole del pensatore francese, “la pace non è un dono della storia, ma un mestiere politico”. In altri termini, solo riconoscendo che la guerra sia un’opzione sempre possibile si può lavorare per cercare di evitarla. Si tratta della “grammatica della realtà”, in Italia tutta studiare. È arrivato il momento di farlo.
Aggiornato il 09 dicembre 2025 alle ore 09:57
