“Civiltà è tutto ciò che l’università non può insegnare”, chiosava Nicolas Gomez Davila in uno dei suoi più celebri aforismi, quasi anticipando di diversi decenni il problema odierno, cioè la separazione sempre più tragicamente netta tra università e pensiero, tra università e libertà, tra università e civiltà.
Ha destato numerose polemiche, infatti, la decisione dell’ateneo di Bologna – pare su pressione dei centri sociali e dei collettivi locali, che tuttavia si ignora di quali poteri accademici godano – di non attivare un corso di filosofia rivolto ai cadetti dell’Accademia militare di Modena su proposta del Capo di Stato Maggiore Generale Carmine Masiello.
La risposta negativa, infatti, sarebbe stata non soltanto supportata dall’intero corpo docente, ma per di più motivata con la necessità di tenere fuori dalle università la guerra e il sionismo.
Sul punto si devono effettuare alcune considerazioni, data l’incresciosa situazione in tutta la realtà pare precipitata a seguito di una così ideologica decisione.
In primo luogo, non ci si può esimere dal considerare l’aggravante per cui ad essere coinvolto è proprio il Dipartimento di Filosofia i cui esponenti pare che insegnino qualcosa in cui non credono fino in fondo e che predichino un credo politico-ideologico che appare strutturalmente incompatibile con ciò che insegnano.
La filosofia, infatti, qualunque sia il ramo che di essa si intenda studiare e a qualsiasi scuola di pensiero tra quelle molteplici costituite dai numerosi autori passati e presenti a cui si intenda aderire, essendo esercizio del pensiero razionale non soltanto non tollera qualsivoglia impostazione ideologica, ma per di più non consente di escludere nessuno che desideri abbeverarsi alla sua fonte, poiché, con gli insegnamenti di uno dei più noti frammenti di Eraclito – purtroppo dimenticati dal Dipartimento bolognese – “comuni a tutti è il pensare”.
A differenza dell’ideologia che sottomette la realtà alle proprie esigenze, e differenza della politica che per definizione è partitica, cioè frazionata e di parte, la filosofia esprime l’universale, per cui non può essere ridotta a servire né l’ideologia né tanto meno la politica, per quanto nobili siano le cause che esse sperano di perseguire.
Chi non tiene conto di questo dato strutturale della filosofia sarebbe meglio che rinunciasse immediatamente a dedicarsi ad essa per non essere vittima e fautore di disastrose sbandate del pensiero come colui che confidando soltanto nelle proprie capacità marinare intendesse navigare senza timone.
Si è ben consapevoli che oggi la filosofia è ridotta allo stremo – anche per via di tutti coloro che insegnandola ne travisano, tradiscono o negano la natura razionale e la nobile vocazione veritativa – specialmente nei dipartimenti di filosofia che oramai l’hanno asservita ad altre impellenze di specifica natura ideologico-politica, ma ciò non significa che si possa continuare a scambiare la patologia con la fisiologia.
Quanti dovessero insistere sul predetto biasimevole modo d’intendere la filosofia, mischiandone la purezza con altre contaminazioni che come l’ideologia sono specificamente opposte al pensiero razionale, dovrebbero procedere ad un esame di coscienza riconoscendosi causa di quello stato irragionevole in cui versa la filosofia già denunciato da Friedrich Nietzsche a cui non mancava l’onestà intellettuale: “In quali condizioni innaturali, artificiali e in ogni caso indegne deve venire a trovarsi, in un'epoca che soffre della cultura generale, la più verace di tutte le scienze, la sincera e nuda dea Filosofia”. Fin qui in ordine al metodo.
Sul merito, è bene ricordare che proprio lo studio della filosofia e l’addestramento del pensiero all’arte razionale che soltanto la filosofia consente di sviluppare sarebbe quanto mai necessario e opportuno proprio per il personale militare, poiché soltanto attraverso la filosofia si apprende la distinzione tra il bene e il male, tra giusto e ingiusto, tra guerra e pace, e nozioni indispensabili quali la dignità umana, il diritto, il limite, tutte dotazioni concettuali e spirituali che si spera il personale militare possegga e adoperi sempre con dovizia per evitare che gli arresti si trasformino in torture, che le guerre degenerino in stermini, che la bestialità prevalga sull’umanità.
Se c’è qualcuno che dovrebbe seguire i corsi di filosofia, dunque, sono proprio i militari; ed è un peccato che proprio coloro che vivono la propria vita accademica nell’alveo della filosofia siano gli unici a non comprenderlo riservando i benefici della propria disciplina soltanto a chi condivide il loro pensiero – come se un medico decidesse di prescrivere una terapia soltanto ai suoi pazienti che si trovano in un buono stato di salute – e dimenticando peraltro ciò che ha insegnato tra i tanti John Stuart Mill per il quale : “Quando tutta la specie umana, meno uno, avesse un’opinione, e quest’uno fosse d’opinione contraria, l’umanità non avrebbe maggior diritto d’imporre silenzio a questa persona, che questa persona, ove lo potesse, d’imporre silenzio all’umanità”.
In secondo luogo, emerge il problema relativo alla circostanza per cui un tale diniego non ha trovato scaturigine da un consesso privato, ma da una istituzione pubblica per di più universitaria.
L’università odierna è afflitta da mille problemi, per lo più sotto gli occhi di tutti, perfino di coloro che risolutamente li negano poiché per di più ne sono la causa, ma la mancanza di universalità a cui essa appare vocata è la più stridente e grottesca contraddizione che la caratterizza.
Se l’università intende prendersi ed essere presa sul serio – sottraendosi al sospetto d’essere ridotta ad un mero aggregato di gestione di potere, danari e personalismi individualistici – non può che evitare ogni forma di censura tanto ex parte obiecti quanto ex parte subiecti.
Invocare l’autonomia accademica, del resto, appare soltanto come una foglia di fico, poiché sebbene è vero che tale autonomia sussiste trovando espressa tutela nell’articolo 33 della stessa Costituzione italiana, è anche pur vero che l’autonomia non può spingersi fino al punto di rivoltarsi contro tutti gli altri principi, diritti e libertà che la stessa Costituzione riconosce e sancisce: diritto allo studio, libertà di parola e di pensiero, principio di uguaglianza formale e sostanziale.
L’autonomia accademica, allora, non può che incontrare il limite del rispetto di quella stessa Costituzione da cui essa stessa trova legittimità e fondamento e non può essere intesa come l’arbitrio incondizionato: è la differenza tra un potere limitato – come insegnato da Charles de Montesquieu – e un potere assoluto – come auspicato da Thomas Hobbes: distinzione cardinale che dovrebbe essere il pane quotidiano all’interno di un dipartimento di filosofia. Se così non è sarebbe meglio per tutti chiudere tali dipartimenti e destinare altrove le risorse necessarie al loro mantenimento.
Come se ciò non bastasse, del resto è proprio alla luce del diritto che emerge tutta la paradossalità della vicenda bolognese, poiché si viene a creare la bizzarra situazione per cui un detenuto, magari condannato per omicidio, potrebbe trovare spazio negli studi accademici, mentre un giovane cadetto che forse a stento riesce a maneggiare un’arma ne sarebbe aprioristicamente escluso.
In conclusione, allora, tutta la vicenda rappresenta un’occasione mancata di esercizio del pensiero razionale, un caso di negazione della vocazione universalistica di cui l’università dovrebbe essere munita, un tragico episodio di subordinazione dei principi giuridici che sono di tutti a quelli ideologici che sono soltanto di alcuni.
Nulla di più anti-filosofico, nulla di meno paideutico.
Aggiornato il 04 dicembre 2025 alle ore 10:39
