Antonino Sala, nell’eccellente articolo A proposito di Regioni: abolire e riformare (l’Opinione, 29 novembre 2025) dopo la precisa analisi della nascita e della condizione attuale delle Regioni, più o meno simile per tutte quante, sembra conservare una residua speranza sulla loro riformabilità, “correggendo le distorsioni accumulatesi in settant’anni”.
Sono anni che qui e altrove scrivo che, al contrario, le Regioni sono irriformabili e vanno semplicemente spianate. Riprendo in breve qualcuno degli argomenti adoperati in passato (per esempio: Le Regioni non sono state un affare, l’Opinione 4 febbraio 2023; Le Regioni sono state un affare? Bilancio istituzionale del cinquantenario, l’Opinione 17 gennaio 2020). Ho sempre ricordato e ribadisco qui la vera origine politica delle Regioni ordinarie nel 1970. Non furono la dimenticanza o l’insipienza le cause che determinarono il rinvio per ventidue anni dell’attuazione del completo ordinamento regionale. Fu una precisa e saggia volontà politica, che purtroppo venne meno nel 1970, non per superiori ragioni di Stato, bensì per gretto calcolo politico. La vera ragione storica della creazione delle Regioni fu enunciata con autorevolezza e realismo da Francesco Cossiga nelle sue memorie: “Il cammino verso l’alleanza tra Dc e Pci fu lento ma inarrestabile. Fu d’aiuto la convinzione che non si poteva tenere la sinistra parlamentare, un movimento così potente, fuori dalle sfere del potere. Per questa stessa ragione, in effetti, Mariano Rumor aveva avuto, anni prima, l’idea di sbloccare l’istituzione delle Regioni, le quali furono dunque varate per motivi eminentemente di equilibrio politico, non perché le si ritenesse necessarie per una migliore organizzazione dello Stato. Insomma, bisognava dare un po’ di potere ai comunisti lì ove erano più forti: in Toscana, in Emilia Romagna, in Umbria”.
Pertanto è appropriato considerare le Regioni alla stregua di un osso lanciato dai democristiani ai comunisti per placarne la fame di potere, non certo di una meditata, lungimirante, indispensabile scelta istituzionale. Invano, in Parlamento, si opposero liberali, missini, monarchici, persino con un durissimo ostruzionismo. Democristiani, repubblicani, socialdemocratici, socialisti, comunisti prevalsero. La stentorea maggioranza regionalista addusse, in sostanza, quattro motivi, considerati addirittura esiziali: attuare la Costituzione (22 anni dopo, ripeto!); decentrare lo Stato; risparmiare sulla spesa pubblica; ridurre la burocrazia. Vastissimo programma, come gl’Italiani hanno dovuto amaramente constatare. Quella maggioranza aggiunse pure motivi di contorno, buoni ad indorare tutte le pillole riformiste: avvicinare lo Stato ai cittadini; aumentare la partecipazione popolare; responsabilizzare l’amministrazione; accrescere la democrazia dal basso (niente democrazia dall’alto, dunque!).
Circa tali motivi, addotti come essenziali e accessori, in realtà pretesti, per l’istituzione delle Regioni, è accaduto esattamente il contrario!
Su queste stesse basi è stato poi eretto il totem del “devoluzionismo” pseudo federalista che nel 2001 ha ribaltato l’assetto del 1948. Così la Repubblica, “una e indivisibile”, ha preso a dissolversi in staterelli di stampo preunitario. Alla capitale d’Italia (ribattezzata inopinatamente Roma Capitale) si sono aggiunte “simil capitali” che scimmiottano in tutto e per tutto la vera capitale. Le Regioni, che non badano a spese per compiti propri e impropri e per le loro sedi, hanno un parlamento che si chiama consiglio (la Liguria e le Marche deliberarono persino di chiamare Parlamento il loro Consiglio regionale e Deputati i consiglieri, ma la Corte costituzionale con le sentenze 106/2002 e 306/2002 sventò il protervo tentativo di equiparazione con le Camere e dichiarò incostituzionali le delibere!), un governo che si chiama giunta, un presidente che non a caso chiamano governatore. Lo status dei consiglieri, a parte le autorizzazioni per le inchieste penali, è sostanzialmente identico ai parlamentari, comprese le indennità, talvolta addirittura superiori. In qualche Regione hanno perfino inventato i “sottosegretari di giunta” (sic!) come se gli assessori fossero ministri, pur di disporre di una prebenda in più. Le Regioni possiedono, poi, sedi distaccate a Roma, Bruxelles, e in altre importanti città del mondo: dispendiosi uffici inutili che a loro volta scimmiottano le ambasciate e occupano i famigli dei regionali.
Ogni Regione ha poteri, soprattutto legislativi, così estesi da aver innescato il più imponente numero di conflitti di attribuzione con lo Stato. Mentre la competenza assorbente della sanità (il 75/80 per cento del bilancio) viene esercitata in modalità complessivamente deludenti e vergognosamente discriminatorie tra cittadini di differenti regioni, a dispetto del costituzionale, eguale, diritto alla salute. A parte l’addizionale Irpef fino al 3,33 per cento introdotta per ripianare i debiti della sanità. E tacendo delle decine di miliardi di debiti accumulati da tutte le Regioni.
Infine, l’incombente “regionalismo differenziato”, del quale dovranno pentirsi parimenti chi, illuso dalle aspettative, lo reclama e chi, deluso dalla realtà, lo teme. A dispetto della “verità effettuale”, dopo trent’anni di regionalismo ordinario e ventiquattro anni di regionalismo rinforzato, il regionalismo differenziato viene di bel nuovo considerato salvifico alla stregua dei regionalismi precedenti, come allora senza plausibili ragioni e puntuali verifiche; anzi, con l’assoluta convinzione del buon esito della riforma, senza considerarne le inevitabili conseguenze inintenzionali.
Nei dichiarati propositi, se non nel discorso programmatico, la presidente Meloni fu drastica nel sostenere l’abolizione delle Regioni, una riforma radicale veramente di destra liberale che consegnerebbe la premier alla storia della Repubblica e dell’Italia, restituendo alla patria la dignità risorgimentale di nazione unitaria, essa stessa, di per sé, divenuta nel frattempo “una regione” dell’Unione europea. “Regione” che sarebbe antistorico e autolesionistico frazionare, come accadrà se sarà portato alle estreme conseguenze il “regionalismo differenziato”.
Aggiornato il 01 dicembre 2025 alle ore 10:05
