Cerco subito di sfatare un luogo comune tanto diffuso quanto inconsistente, quello secondo cui la durata interminabile dei processi deriverebbe dalla endemica mancanza di personale, di mezzi, di magistrati, insomma di fondi sufficienti. Soltanto in piccola parte é così. Invece, in massima parte la durata dei processi deriva dal fatto che essi sono mal condotti e peggio decisi. Mal condotti perché le procedure sono farraginose, irrazionali, tendenzialmente formalistiche, autoreferenziali e tali che ad ogni riforma che si succede – ultima quella nefanda di Marta Cartabia – si peggiorano le cose, invece di migliorarle, semplicemente perché si dimentica la vita reale, ipotizzando che questa sia per la procedura e non la procedura per la vita: ne viene che il senso del diritto è stato da tempo dimenticato, lasciando spazio ad arzigogoli da legulei tanto bizantini quanto esiziali. Peggio decisi perché procedure di questo genere e così distorte non possono che partorire decisioni perplesse, dubbie, male argomentate e spesso fondate su massime della Cassazione che fanno della pura astrazione – ignara dei veri rapporti umani – un dogma indiscusso.
Ecco dunque la lungaggine dei processi. Ecco perché le sentenze dei Tribunali vengono impugnate così spesso e così spesso riformate. Ecco perché le decisioni delle Corti d’Appello sono di frequente oggetto di ricorso in Cassazione e di frequente dalla Cassazione cassate senza rinvio o, spesso, con rinvio: e qui si ricomincia da capo. Risultato: occorrono sette o otto anni per definire un processo civile e sei o sette uno penale e ciò non meraviglia perché far male le cose implica molto tempo, mentre farle bene ne fa risparmiare parecchio. Lo aveva rilevato Seneca quando annotava che cito scribendo, non fit ut bene scribatur; bene scribendo, fit ut cito (“scrivere in fretta non comporta scrivere bene; scrivere bene implica scrivere in fretta”). Superato questo luogo comune che si spera confinato nel limbo dei pensieri erratici, va detto che l’idea di costituire un apposito comitato per il no al referendum, partorita dalla Associazione nazionale magistrati, pone quest’ultima – che non pare avvedersene – in contraddizione con se stessa.
Infatti, per un verso, l’Associazione rivendica orgogliosamente di non aver mai esercitato un ruolo politico, ma, per altro verso, costituendo un comitato antireferendario, ne assume uno che più politico non si può immaginare, tanto che lo stesso Michele Emiliano – accorto presidente uscente della Puglia ed ex magistrato – la invita pubblicamente a desistere da una simile iniziativa, ma senza successo. L’Anm prosegue imperterrita sulla strada appena aperta, proponendosi come interlocutrice antagonista del Governo, senza capire che questo modo di fare le farà perdere molti più consensi di quanti gliene potrà far guadagnare, perché conferma nei fatti ciò che a parole la stessa vuol negare: e cioè che si tratta di un organismo politico e che politica è la funzione che svolge.
Va anche precisato che il cuore della riforma del ministro Carlo Nordio, a dispetto di ciò che si ripete ogni giorno, non è tanto la separazione delle carriere, quanto il sorteggio per scegliere i componenti del Consiglio superiore della magistratura. Soltanto il sorteggio permette infatti – nonostante i limiti che presenta – di estirpare in modo tendenzialmente assoluto la mala pianta del gioco politico che le correnti esercitano all’interno della magistratura, alleandosi o contrapponendosi allo scopo di eleggere non il più meritevole, ma colui che meglio risponda alla logica della appartenenza politica correntizia: pronto costui ovviamente, una volta insediato, a votare in un senso o nell’altro in base alla medesima sensibilità politica che lo ha condotto a comporre il collegio di cui fa parte.
Né si disprezzi il metodo del sorteggio. A prescindere dall’apprezzamento che ne fa Aristotele nell’Atene del V secolo quale sistema neutro che impedisce cordate politiche e perniciosi apparentamenti, il sorteggio, da un lato, viene usato normalmente da decenni anche in altri settori dell’ordinamento: i giudici popolari della Corte d’Assise, che giudica di reati gravi e gravissimi, sono sorteggiati; dall’altro lato, appare l’unico metodo non per garantire che venga scelto il migliore, ma per assicurare che “non” venga scelto chi possa vantare soltanto una appartenenza correntizia: come oggi purtroppo accade con effetti nefandi e che sono sotto gli occhi di tutti.
Vi pare poco?
Aggiornato il 10 novembre 2025 alle ore 09:40
