Toscana rossa: vittoria dimezzata

In Toscana vince il campo largo. Non è una sorpresa. Che la sinistra avesse la strada spianata in una delle due regioni – l’altra è l’Emilia-Romagna – che storicamente hanno incarnato il cuore pulsante del comunismo italiano e che per la destra fosse una mission impossible provare a scalarla, era noto. Tuttavia, non tutte le vittorie sono uguali, come non tutte le sconfitte hanno il medesimo retrogusto amaro. Ragione per la quale, anche in presenza di un risultato annunciato è bene guardarvi dentro perché non è tutto oro ciò che luccica. E, per stare al proverbio, il “campo largo” non brilla affatto. Come, del resto, qualche ombra di troppo appesantisce la sconfitta del centrodestra. Partiamo dall’affluenza. Mai così bassa per una regione affezionata alla partecipazione della cittadinanza alla vita della politica. Ha votato il 47,73 per cento degli aventi diritto contro il 62,60 per cento delle precedenti Regionali nel 2020.

Il 14,87 per cento in meno è un calcio negli stinchi della coesione tra istituzioni pubbliche territoriali e Paese reale. Con un aggravante: nel 2020 si votò in piena emergenza Covid, mentre la scorsa domenica c’era il sole e le temperature sono state gradevolmente miti, quanto basta per essere invogliati a uscire di casa e recarsi al seggio in tutta comodità. Eppure, la maggioranza dei toscani vi ha rinunciato. Perché? Se, come raccontano a sinistra, la vittoria c’è stata grazie al buon governo del governatore uscente, cosa ha determinato la scelta di un toscano su due di non mostrare la dovuta gratitudine tornando a vergare il nome di Eugenio Giani sulla scheda elettorale? Evidentemente, quell’uno su due non l’ha pensata così. Probabilmente, tutto questo entusiasmo sull’operato del governatore uscente non gli è scorso nelle vene. Come, peraltro, non ha avvertito l’impulso a cambiare campo optando per l’avversario di centrodestra, della cui performance parleremo in altra occasione.

In pratica, la delusione rilevata a sinistra, in una regione dalla marcata identità politica, non si trasforma meccanicamente in un’adesione al centrodestra, segno che gli steccati ideologici restano saldi e le ragioni dell’appartenenza a un’area politica prevalgono sull’interesse ad avere una migliore amministrazione del proprio territorio. Questo dato è destinato a riverberarsi sulla realtà nazionale, nel senso che alla prossima tornata per il rinnovo del Parlamento e del Governo del Paese, per quanto Giorgia Meloni potrà combinare cose mirabili a Palazzo Chigi e ridare lustro all’Italia nel mondo, una quota consistente di toscani, come di emiliano-romagnoli, continuerà a votare a occhi bendati il più sfigato dei leader del Partito democratico perché, per quel popolo, stare a sinistra è più di una scelta di campo: è un credo, un habitus mentale trasmissibile per linee di sangue alle generazioni successive.

Comunque, Giani ha vinto. Ma lui chi è, qual è la sua storia politica? È fondamentale saperlo per capire quale Pd abbia in concreto tenuto la poltrona: la vecchia guardia proveniente dall’area socialcomunista della Prima Repubblica o un’espressione della new age sinistrorsa e radical-chic che si riconosce in Elly Schlein? Eugenio Giani nasce politicamente nel Partito socialista italiano di Bettino Craxi. Quando il Psi si liquefa sotto i colpi di Mani Pulite, Giani aderisce al partito dei sopravvissuti socialisti, guidato da Enrico Boselli e Ottaviano Del Turco. Solo all’atto della fondazione del Partito democratico, nel 2007, confluisce nel grande contenitore partitico creato per raccogliere l’eredità delle due grandi famiglie storiche della politica italiana: quella comunista e quella democristiana.

La sua formazione politica è quella dell’amministratore locale e lui la svolge seguendo criteri e metodi da partito di governo della Prima Repubblica. Nulla a che vedere col movimentismo fricchettone dei nuovi virgulti assiepati attorno alla segreteria della Schlein. Infatti, la leader del Pd non lo ritiene un suo uomo e non lo vorrebbe ricandidare. Ma lui, la vecchia volpe che non è finita nella pellicceria di Tangentopoli, ha dalla sua il sostegno della rete dei sindaci toscani che ha saputo coltivare e nutrire con certosina pazienza nei cinque anni del mandato presidenziale appena concluso. Per certi aspetti, lo si potrebbe definire un Vincenzo De Luca in versione granducale. Non avendo la tagliola del limite del secondo mandato, la spunta e la Schlein è costretta a battere in ritirata con il suo candidato in pectore. Oggi Giani commenta sarcastico la vittoria con un: e non mi volevano candidare.

Primo elemento di valutazione che se ne ricava è che vince nelle roccaforti storiche della sinistra la vecchia guardia mentre la nuova leadership del partito può solo appropriarsi del risultato per spenderlo sul mercato della propaganda. Ma la vittoria di Giani non è la vittoria del Pd. Il partito registra il 34,43 per cento di consensi, che è un po’ meno del 34,69 per cento ottenuto nel 2020. Ma che diventa tantissimo meno se si confrontano i numeri assoluti dei votanti: 437.313 preferenze al Pd nel 2025, 563.116 nel 2020. Sono 125.803 voti persi per strada tra una tornata e l’altra delle regionali. Si obietterà: resta un voto locale, non estensibile al giudizio complessivo che l’elettore esprime sulla politica nazionale. Non è propriamente vero.

Il Pd in Toscana è in perdita costante dal 2020. Dalle Politiche del 2022, passando per le Europee del 2024, ha subìto una flessione nei consensi. Perciò, è stata una vittoria dimezzata. Riguardo alle altre componenti del “campo largo” c’è poco da dire se non che, di elezione in elezione, si va smascherando il bluff del Movimento 5 stelle. Ieri l’altro hanno raccolto, come lista, il 4,34 per cento che è già tanto in una regione che non li ha mai visti di buon occhio e che non si fida della folgorazione avuta dal suo leader, Giuseppe Conte, sulla via della sinistra. Si dirà: come non vedere il buon risultato di Matteo Renzi? Non c’è dubbio che la scaltrezza non manchi all’ex premier: sa bene come acquattarsi sul carro del vincitore. Per l’occasione si è inventato il nome di “Casa riformista”, confondendosi tra i “civici” per evitare di sfidare l’elettorato con la consunta divisa di Italia viva. In Toscana, che è pur sempre la sua Regione e del pacchetto di mischia che comanda nella sua micro formazione, ha raccolto un 8,86 per cento di consensi. Che a livello dello scenario nazionale non vogliono dire nulla, ma molto possono dire nell’ambito della già precaria tenuta del “campo largo”. Di certo, il risultato dell’ex “rottamatore” darà fiato all’ala moderata nel Pd per rimettere in discussione i rapporti privilegiati che la Schlein si ostina a intrattenere con i pentastellati.

Si segnala il buon risultato della terza candidata alla presidenza Antonella Bundu, la quale, appoggiata dalla lista Toscana rossa, ha ottenuto il 5,18 per cento. Perché stupirsi? Ci sta che in una regione storicamente rossa prenda piede una forza che si colloca a sinistra dei partiti del “campo largo”. Ciò non vuol dire che, sul piano nazionale, si possa ripetere il medesimo schema o che, se pure si tentasse l’esperimento, questo avrebbe successo. La realtà è che tutti gli sforzi recenti, anche i più sgangherati, di rimettere in movimento la piazza in funzione antigovernativa, non hanno avuto alcun ritorno elettorale per i suoi promotori. La strategia di scatenare l’inferno sulla questione di Gaza non ha fatto aggio elettorale alla sinistra. Neanche in Toscana, oltre che in Calabria e nelle Marche, dove si è votato di recente. Al contrario, visti i dati dell’affluenza, è ragionevole sostenere che il ribellismo dei “pro-Pal” coccolato dai leader del centrosinistra e rincorso da Maurizio Landini abbia fatto scappare gli elettori riformisti moderati.

In conclusione, ci sono vittorie e vittorie. Si può vincere e poi scoprire che sia stata una mezza sconfitta. A nostro avviso è ciò che è successo in Toscana ieri l’altro. E la classe dirigente del Pd farebbe cosa saggia se avviasse adesso una riflessione sulla linea politica che sta perseguendo, prima che sia troppo tardi. Non dimentichino i “compagni” che la partita delle regionali non è ancora terminata e le due regioni del Sud (il Veneto neanche lo inseriamo nell’elenco delle “contendibili”) che andranno al voto tra poco più di un mese, oggi date sicure al centrosinistra, non hanno la stessa storia di appartenenza ideale al mondo della sinistra. Campania e Puglia sono terre di notabili e di capibastone, di viceré e di feudatari, tutti accomunati dall’irredimibile malvezzo di sentirsi nel loro piccolo dei Re Sole che, come l’illustre antenato, sono soliti ripetere davanti allo specchio: L’État, c'est moi!

Aggiornato il 15 ottobre 2025 alle ore 09:25