
Ricordo le prime ore del 7 ottobre 2023. Ero seduto alla mia scrivania a Gig Harbor, nello Stato di Washington, mentre le prime immagini sgranate della campagna terroristica di Hamas nel sud di Israele cominciavano a circolare su X. Per gran parte di quella giornata ho continuato a scorrere la mia timeline, cercando di dare un senso al massacro e alla barbarie. Elay, un imprenditore israelo-americano che stava lavorando alla ristrutturazione della mia casa, mi chiamò nel panico. I miliziani di Hamas avevano tentato di sfondare la porta della moglie e dei figli, nel sud di Israele, ma per fortuna un vicino armato di fucile era riuscito a respingerli. Poco dopo, Elay partì per Israele per riunirsi alla sua vecchia unità delle forze speciali. Finì poi per essere inviato nella Striscia di Gaza, dove affrontò duri combattimenti.
Sono passati due anni, e la guerra tra Israele e Gaza ha avuto un impatto profondo sia sulla regione sia sugli Stati Uniti. Ho partecipato spesso al dibattito sulle politiche interne, ma ho esitato a intervenire in quello sulla politica estera, dove mi sento meno sicuro. Tuttavia, l’anniversario del 7 ottobre ci spinge a fare un bilancio della situazione attuale e, per chi di noi si preoccupa per gli israeliani all’estero e per gli ebrei americani in patria, a riflettere su come andare avanti. Nell’immediato dopo 7 ottobre, al di fuori dell’ambiente delle Ivy League e di alcune altre università, la maggior parte degli americani provò giusta solidarietà verso lo Stato ebraico. Le immagini terribili di innocenti massacrati, di giovani rapiti a un festival, di ebrei falciati per strada, bastavano a scuotere la coscienza di qualsiasi persona. L’intervento dell’esercito israeliano a Gaza fu pienamente difendibile. Una campagna terroristica di quella portata richiedeva una risposta forte e, come alleato di lunga data, gli Stati Uniti avevano il dovere di offrire sostegno.
Ora, dopo due anni estenuanti di conflitto, il dibattito pubblico è cambiato. I critici accusano Israele di condurre un “genocidio”. Non è vero, ma un numero sempre maggiore di americani lo crede. A destra, molti sostenitori di Israele – compresi esponenti di spicco del Partito Repubblicano – sostengono che l’America abbia un dovere teologico verso lo Stato ebraico. La loro posizione si basa su una complessa interpretazione delle profezie bibliche. Da cattolico, la trovo sconcertante; da analista politico, la trovo poco convincente. Altri sostenitori, invece, vorrebbero zittire ogni critica alla guerra, equiparando ogni forma di dissenso all’antisemitismo e suggerendo che chiunque metta in discussione la saggezza del sostegno americano debba essere escluso dal dibattito civile. Queste strategie forse funzionavano in passato, ma oggi non più. Gli amici di Israele dovrebbero invece fondare i loro argomenti sull’interesse nazionale degli Stati Uniti. Dovrebbero spiegare in modo trasparente la logica strategica della prosecuzione della guerra e delinearne l’obiettivo finale. Gli americani sono alleati generosi, ma anche nei confronti degli amici più stretti vogliono capire chiaramente perché e come si conduce un conflitto e in che modo il loro sostegno contribuisce al bene del Paese.
America e Israele condividono molti, se non la maggior parte, degli interessi strategici. I sostenitori di Israele dovrebbero chiarire dove si incontrano le linee di questo diagramma di Venn. Dovrebbero concentrarsi sul modo in cui il sostegno a Israele promuove la pace, la sicurezza e la stabilità degli Stati Uniti, oltre a difenderne i valori culturali. È questo tipo di argomento, non quello teologico o fondato sul senso di colpa, a poter convincere davvero gli indecisi. Anche sul piano interno vale lo stesso principio. Molti ebrei americani sono comprensibilmente scossi dal recente aumento dell’antisemitismo nei campus, da episodi di violenza nelle città e dall’odio crescente che circola su Internet. Alcuni leader politici hanno risposto proponendo leggi come “l’Anti-Semitism Awareness Act”, che introdurrebbe di fatto norme contro il cosiddetto “hate speech” nel diritto americano. Altri, come la Anti-Defamation League, hanno cercato di screditare i critici – a volte giustamente, ma spesso no – e di chiedere la censura o la rimozione dalle piattaforme di chiunque sia considerato “nemico degli ebrei”. Nei campus, alcuni gruppi hanno chiesto programmi e tutele specifiche per gli studenti ebrei, che tuttavia finiscono per assomigliare ai programmi Dei (Diversità, equità e inclusione).
Questi metodi sono controproducenti. La risposta all’antisemitismo non si troverà nelle leggi sul linguaggio d’odio, nella censura digitale o nei programmi Dei, ma nel richiamo ai valori universali americani. Il modo giusto per proteggere i diritti civili degli ebrei americani è garantire l’eguale protezione della legge per tutti gli individui, di qualunque origine o fede, e pretendere che lo Stato adempia al suo dovere fondamentale: proteggere la vita, la libertà e la proprietà. Il modo giusto per sconfiggere le teorie complottiste antisemite non è mettere a tacere chi le diffonde, ma confutarle con la forza della ragione. Allo stesso modo, invece di chiedere programmi Dei nelle università, gli studenti ebrei sarebbero meglio tutelati da un’unica regola di convivenza civile e di sicurezza per tutti. Chi infrange i principi di base del confronto civile – per esempio occupando spazi con accampamenti illegali o vandalizzando proprietà – dovrebbe essere punito in modo rapido e deciso. Non perché colpisce specificamente gli ebrei, ma perché viola principi universali che valgono per chiunque e che sono indispensabili al funzionamento di un’università.
Sono profondamente solidale con la causa degli ebrei americani e con lo Stato di Israele. Ma se vogliamo essere efficaci, dobbiamo fondare le nostre argomentazioni sull’interesse nazionale degli Stati Uniti e sui valori universali dell’America. Adottare la logica della sinistra – fatta di censura e “hate speech” – potrà forse dare una sensazione immediata di sicurezza, ma alla lunga fallirà. Il destino degli ebrei americani è legato a quello di tutti gli americani. E così deve essere presentato.
(*) Tratto da Christopher F. Rufo
Aggiornato il 09 ottobre 2025 alle ore 09:44