
Il segretario di Più Europa – il deputato Riccardo Magi – ha scelto di non votare a favore della separazione delle carriere. È una decisione grave, che segna il tradimento di decenni di tradizione pannelliana e radicale sulla giustizia. Magi non ha avuto il coraggio di assumersi la responsabilità di una battaglia di civiltà, che lui stesso aveva definito “giusta e utile”. Ha preferito cercare motivazioni di comodo, non tanto per ragioni di principio, ma per non allontanarsi da quello che evidentemente considera il suo sbocco naturale: una ricandidatura nel “campo largo”, per gentile concessione di Elly Schlein. Le critiche che ha rivolto al governo – lo scontro con la magistratura, le tensioni con le corti sovranazionali, l’arroganza istituzionale – restano parole vuote. Perché il suo “no” non risolve nessuna di queste questioni. Al contrario, lo allinea di fatto a Schlein, Giuseppe Conte, Marco Travaglio e Piercamillo Davigo: coloro che difendono lo status quo di una giustizia malata, fatta di abusi, lungaggini infinite, processi mediatici e violazioni sistematiche della presunzione di innocenza.
Così, l’attuale Più Europa abdica al proprio ruolo e rinnega se stessa. Non porta avanti le sue idee, ma si piega ai tatticismi di una sinistra giustizialista che i radicali avevano combattuto per decenni, e che ora diventa improvvisamente il nuovo orizzonte di chi guida la formazione politica che ne avrebbe dovuto ereditare metodo e istanze. Il garantismo non è mai calcolo politico. È lotta culturale, visione, coraggio. La scelta di Magi rappresenta l’opposto: opportunismo, rinuncia, tradimento.
Aggiornato il 19 settembre 2025 alle ore 09:39