La differenza tra Israele e Stati Uniti non risiede nelle armi

Il brutale assassinio di Charlie Kirk ha fatto uscire allo scoperto i nemici della civiltà. Sui social un coro di progressisti gioisce della sua morte, come se fosse una fonte di liberazione. I membri dell’intellighenzia e i giornalisti faziosi stravolgono le frasi del fondatore di Turning Point per dipingerlo con le sembianze di un mostro reazionario, un integralista cristiano tradito dai suoi convincimenti. Alcuni oppositori di Donald Trump, anziché unirsi al cordoglio dopo il tragico evento, ne approfittano per screditare la detenzione di armi a scopo difensivo, tutelata dal secondo emendamento della Carta costituzionale. Queste congetture crollano sotto il peso delle loro incongruenze: l’unica “arma” di Charlie Kirk era il microfono usato per dialogare rispettosamente con gli studenti che avevano idee opposte alle sue. C’è persino chi avanza improbabili tesi cospirazioniste, tra le quali spicca per originalità il coinvolgimento del Mossad nella sparatoria. Come al solito, la fervida immaginazione degli antisemiti li porta a esprimersi su temi di cui non hanno la minima contezza.

In Israele i giovani di età pari o superiore ai 18 anni, indipendentemente dall’origine etnica, prestano servizio nell’esercito. La leva militare obbligatoria si applica ai maggiorenni ebrei e agli uomini drusi e circassi dal 1956, su esplicita richiesta di entrambe le comunità. Gli arabi di fede musulmana e cristiana, invece, possono arruolarsi volontariamente – una decisione adottata per prevenire le tensioni con gli Stati limitrofi. Quando i riservisti escono dalla base nel periodo di congedo, che sia una settimana o solo la festività di Shabbat da trascorrere in compagnia dei propri cari, molti di loro hanno l’M-16 sempre a portata di mano, tenendolo accanto a sé ovunque vadano: in spiaggia, nei bar, mentre fanno shopping, si allenano in palestra, passeggiano insieme agli amici o siedono al ristorante.

La minaccia con cui devono fare i conti ogni giorno non è il rischio di morire in una sparatoria scolastica, bensì il terrorismo. Coltellate di massa, kamikaze esplosi nei luoghi della movida, automobili che investono i pedoni: tutti attacchi perpetrati dai fondamentalisti islamici in nome di Allah. La presenza di soldati armati in pubblico ha sventato molteplici azioni terroristiche, impedendo che si trasformassero nelle stragi che hanno ripetutamente insanguinato il suolo israeliano negli ultimi anni. La mente corre subito all’attentato di lunedì scorso presso la fermata di Ramot Junction, nella quale due ventenni cisgiordani affiliati alle Brigate al-Qassam hanno aperto il fuoco contro un autobus uccidendo sei civili e provocando decine di feriti.

A fine gennaio un cittadino marocchino in possesso di Green Card statunitense si è fermato per una rapida sosta in una pizzeria nel quartiere Nahalat Binyamin di Tel Aviv prima di accoltellare quattro passanti. Per fortuna, è stato neutralizzato in tempo da un diciottenne dotato di fucile. Se quell’eroico ragazzo fosse stato sprovvisto di armi, probabilmente non sarebbe riuscito a fermare la furia omicida dell’attentatore e avrebbe assistito impotente a un’escalation di violenza. Ma le motivazioni del giovane non suscitano alcun interesse nei sostenitori del gun control che, pur proclamandosi difensori dei deboli, criticano chi salva le vite di persone innocenti minimizzando così le responsabilità dei terroristi, che diventano vittime della sedicente “oppressione coloniale sionista”.

Nonostante migliaia di giovani israeliani non si separino mai dai propri fucili, nessuno ha mai usato un M-16 per uccidere compagni, familiari o alunni riuniti in preghiera. Nessuno ha mai freddato a colpi di mitragliatrice due bambini di 8 e 10 anni, come è accaduto in una scuola cattolica di Minneapolis a opera del transgender Robin Westman. Non si è mai verificato nulla del genere in una nazione che lotta per garantire la sua sopravvivenza e quella dei suoi figli. I contrasti tra la gioventù americana e quella israeliana emergono anche in un recente studio sociologico. Stando ai dati dell’ultima edizione del World Happiness Report (2024), gli Stati Uniti figurano al 23° posto tra i Paesi più felici per i giovani sotto i 30 anni, scendendo di una posizione rispetto all’anno precedente. Israele, costretto a fronteggiare conflitti, episodi terroristici e continue minacce da sette fronti, si colloca al 2° posto nella medesima classifica.

Lo Stato ebraico ha combattuto guerre contro vicini che volevano annientarlo, ha affrontato due intifade, è riuscito a intercettare le ondate di missili scagliati da Hamas, Hezbollah, Houthi e Teheran affidandosi all’Iron dome. I giovani israeliani devono crescere molto più in fretta dei coetanei nel resto del mondo e imparano prestissimo a gestire le situazioni di emergenza. Malgrado ciò, si confermano tra i più felici in assoluto. Gli Stati Uniti sono completamente estranei alle vulnerabilità di Israele. Beneficiano della protezione naturale degli oceani, le barriere più efficaci contro le aggressioni straniere. Hanno conosciuto un’espansione economica duratura dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi, se escludiamo la Crisi petrolifera del 1973 e la Grande recessione del 2008. Figli dei principi giusnaturalisti racchiusi nella più antica e nobile Costituzione esistente, incarnano gli ideali di libertà, progresso, uguaglianza di fronte alla legge.

Tuttavia, i giovani americani stanno sperimentando sulla loro pelle solitudine, disagi psico-cognitivi e forme di accanimento terapeutico a livelli mai registrati in precedenza. Un sondaggio condotto dall’istituto demoscopico Statista su circa 17mila adolescenti ha rivelato che, nel 2021, il 20,5 per cento del campione manifestava sintomi depressivi e l’8 per cento riceveva cure farmacologiche. La percentuale dei giovani depressi è scesa al 17,8 per cento nel 2023, ma è ancora lontana dall’8,1 per cento del 2009, anno in cui solo il 2,4 per cento dei rispondenti si sottoponeva a trattamenti psichiatrici.

Le sparatorie di massa negli Stati Uniti rappresentano meno dello 0,2 per cento di tutti i decessi da arma da fuoco (intorno ai 46.700 nel 2023), attestandosi a circa 210-250 morti l’anno. Ma gli omicidi per ragioni politiche non devono essere sottovalutati. Da circa vent’anni il fenomeno della polarizzazione si è accentuato a un ritmo crescente e ha spaccato in modo profondo l’elettorato statunitense. La deriva massimalista dell’establishment liberal in tema di immigrazione, sicurezza e minoranze ha alienato la working class, il tradizionale bacino di riferimento dei Democratici. La narrazione dei media mainstream veicola sentimenti d’odio verso chiunque abbia delle riserve sui dogmi del politically correct. Spesso, i vicini non si considerano più tali. Aumenta la sfiducia reciproca, la criminalità dilaga nei centri urbani, le organizzazioni di estrema sinistra si impadroniscono dei campus universitari infettandoli con la loro propaganda, scoppiano gli scontri, le guerriglie e le violenze.

Anche Israele è diviso sul piano politico, talvolta con proteste che bloccano le città e discussioni che scuotono il governo. Ma, al netto delle diversità, si percepisce l’unione di fronte alle disgrazie, uno spirito di appartenenza e un orgoglio patriottico che gli Stati Uniti stanno smarrendo drammaticamente. Le differenze tra questi modelli di società non si limitano alle armi o al benessere  economico, ma risiedono in parametri qualitativi come la cultura, la coesione familiare, l’etica del lavoro, il rispetto per la tradizione, il legame con le radici spirituali. È la cultura a creare resilienza o disperazione, a rafforzare le comunità o a frantumarle, a folgorare le menti delle nuove generazioni o a distruggerle. È per questo che una nazione sotto assedio, ma consapevole della sua eredità millenaria, cresce giovani tra i più felici al mondo, mentre un Paese prospero, sicuro e all’avanguardia vede la sua felicità in costante declino. Non è ciò che Charlie Kirk avrebbe auspicato.

Aggiornato il 15 settembre 2025 alle ore 10:02