
La resistenza senza armi dei volontari della libertà
La sequenza degli atti del riconoscimento degli Internati militari italiani (Imi) nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale è emblematica. La illustro con le vicende di mio padre, esemplificative a riguardo, ma comuni a migliaia di altri.
Il Decreto luogotenenziale numero 350 del 3 maggio 1945 istituì la distinzione onorifica di “Volontari della Libertà”. Mio padre Guido Di Muccio, capitano medico che dirigeva l’ospedale da campo di Bencovazzo (oggi Croazia), il 9 settembre 1943 venne lì catturato e deportato nel lager di Meppen (confini olandesi) fino al giugno 1945. Vi subì anche lo “straflager” (campo di punizione per ribellioni e tentativi di fuga). Rientrò in Italia il 5 settembre 1945. Due anni di patimenti d’ogni genere, inflitti a tutti gli Imi. Fu uno dei 600mila italiani che, per non combattere a fianco dei nazifascisti, rifiutarono di venir liberati e restarono prigionieri nei lager. Il 28 luglio del 1954 fu autorizzato a fregiarsi del distintivo della Guerra di liberazione (Dpr 17 novembre 1948, numero 1590 e 5 aprile 1950, numero 234) e ad apporre sul nastrino due stellette corrispondenti agli anni 1944-45. Il 28 novembre 1979 il presidente del Consiglio Francesco Cossiga e il ministro della Difesa Attilio Ruffini gli concessero il brevetto di “Volontario della Libertà” con la seguente motivazione: “Essendo stato deportato nei lager e avendo rifiutato la liberazione per non servire l’invasore tedesco e la repubblica sociale durante la resistenza è autorizzato a fregiarsi, ai sensi della legge 1° dicembre 1977, numero 907, del distintivo d’onore per i patrioti Volontari della Libertà istituito con decreto luogotenenziale numero 350 del 3 maggio 1945.” Con la legge 27 dicembre 2006, numero 296, fu stabilita la concessione della “Medaglia d’onore ai cittadini italiani deportati e internati nei lager nazisti 1943-1945”, che, morto mio padre, fu consegnata a me nel 2010. Il riconoscimento degli Imi si è dunque dipanato nell’arco di 65 anni con doverosi atti individuali, ma senza una solenne e generale attestazione ufficiale dello Stato, cioè della Repubblica nata anche grazie al loro rifiuto e conseguenti sacrifici.
L’esemplare, spesso eroica, storia dei resistenti, prigionieri maltrattati e vilipesi nei lager nazisti, è stata pressoché dimenticata dalle istituzioni e ha suscitato scarso interesse nella storiografia italiana, per decenni. Nella grandissima maggioranza dei libri di testo per le scuole medie “il tema è completamente ignorato, malgrado le dimensioni umane, per dir così, della vicenda” (Paride Piasenti, I militari italiani internati nei lager nazisti, 1972). Solo in questo secolo sono stati pubblicati rigorosi studi storici, tra i quali mi piace ricordare Adolfo Mignemi (Storia fotografica della prigionia dei militari italiani in Germania, Torino, 2005), e l’ormai classico Mario Avagliano e Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti, (Bologna, 2020), il cui perfetto sottotitolo è Una resistenza senz’armi, 1943-1945.
A 80 anni dai fatti, viene dunque pubblicata la legge 13 gennaio 2025, numero 6, “Istituzione della Giornata degli internati italiani nei campi di concentramento tedeschi durante la Seconda Guerra mondiale”. L’istituzione della “Giornata degli internati militari” è stata approvata all’unanimità dalla Camera dei deputati e dal Senato in Assemblea. Il fatto è straordinariamente importante perché attesta che tutte le forze politiche, dalla destra alla sinistra dell’intera rappresentanza parlamentare, hanno riconosciuto formalmente, e finalmente, con la sanzione della legge, il valore morale, politico, storico del rifiuto degli Imi, a prezzo della libertà personale, di servire in armi il nazifascismo di Salò. Essi costituiscono, a buon diritto e ad ogni effetto, la “resistenza senz’armi” ovvero “l’altra Resistenza”, titolo delle memorie di Alessandro Natta, internato militare e segretario del Pci dal 1984-1988 dopo Enrico Berlinguer. Libro che invano nel 1954 tentò di pubblicare con gli Editori Riuniti, casa editrice ufficiale del Pci. Il libro di Natta, altamente significativo in molti sensi, vide la luce con l’editore Einaudi soltanto nel 1997, quando il comunismo europeo, dopo quello sovietico, era finito nell’ignominia. Il “caso Natta”, spiegato e divulgato dal mio Il golpe bianco di Edgardo Sogno, comprova, tra l’altro, il silenzio che ha coperto, nella retorica resistenziale, il contributo delle Forze armate (e in genere dei “partigiani non comunisti”) alla guerra di liberazione. La protervia di chi nega la rivendicazione del monopolio comunista sulla Resistenza suggerisce che del monopolio sia intimamente convinto (cfr. Pietro Secchia, I comunisti e l’insurrezione 1943-1945, Roma, 1954: il potentissimo vicesegretario del Pci pubblicò il suo saggio nello stesso anno 1954 in cui ad Alessandro Natta, deputato comunista dal 1948, fu negata la pubblicazione. Perché, senza volerlo, inficiava la teoria del monopolio).
Chi erano gl’internati militari italiani e perché è stata scelta la giornata del 20 settembre per celebrarne la memoria? Rispondo con le parole della senatrice a vita Liliana Segre, il cui futuro marito Alfredo Belli Paci, allora 23enne ufficiale dell’Esercito italiano, fu uno di essi: “Si è scelto il 20 settembre perché, in quella data del 1943, Adolf Hitler modificò la condizione dei soldati italiani catturati, coniando per loro l’inedita definizione di internati militari anziché prigionieri di guerra. Il che volle dire non godere della Convenzione di Ginevra ed essere appunto detenuti in condizioni terribili” (Liliana Segre, Perché è giusto ricordare i 600 mila militari italiani (tra loro mio marito) rimasti nei lager di Hitler per aver detto “no”, 7-Sette, 5 settembre 2025).
Ora è importante che la “Giornata” del 20 settembre (data fatidica nella Storia d’Italia!) “non diventi solo un esercizio retorico”, auspica la senatrice Segre, affidandone la celebrazione specialmente agli insegnanti, affinché i “600mila no” diventino un esempio luminoso per le nuove generazioni. All’auspicio così autorevole della senatrice Segre mi permetto di aggiungere il mio auspicio che la “Giornata” possa alfine contribuire ad unificare gl’italiani sul sentimento comune della Liberazione come moto corale di rinascita della patria. Dacché “la morte della patria è certamente l’avvenimento più grandioso che possa occorrere nella vita dell’individuo”, come ci ricorda Salvatore Satta con parole sanguinanti, “l’esperienza della nostra storia è dunque l’esperienza di una sconfitta, che noi dobbiamo fermare e affidare alle generazioni future”.
Aggiornato il 12 settembre 2025 alle ore 09:41