Schlein e il rebus Regionali: no cacicchi, no party

Dal dizionario Nuovo De Mauro – Cacicco: s.m. dalla voce caraibica kacik. Nell’America centrale e meridionale, durante l’occupazione spagnola: capo indigeno - estens., chi detiene il potere, specialmente avendolo conquistato con metodi illeciti. 

C’è un paradosso nella strategia di Elly Schlein per vincere alla prossima tornata elettorale per le Regionali. La sua offerta politica fa perno sulla costruzione del campo largo della sinistra. Tuttavia, l’agglomerato partitico che dovrebbe comporlo è costituito da forze – il Partito democratico, il Movimento 5 stelle di Giuseppe Conte e la sinistra massimalista di Nicola Fratoianni innervata dal radicalismo verde di Angelo Bonelli (dall’elenco è esclusa Italia viva di Matteo Renzi che richiede un discorso in altra sede) – che presentano una piattaforma programmatica debole dal punto di vista della visione complessiva della società ma fortemente caratterizzata dai pregiudizi ideologici propri del progressismo militante. E non solo. La confluenza delle diverse anime della sinistra ha trovato terreno fertile sul fronte della lotta per i diritti civili, meno su quello dei diritti sociali dove l’unica proposta realmente unificante – il salario minimo per legge – si connota per la sua chiara proiezione demagogica.

Se questa traiettoria della sinistra soddisfa le componenti radicali e liberal del campo largo, scontenta e non poco l’ala riformista del Partito democratico, che conserva una sua presenza numerica presso la base dei militanti e, soprattutto, annovera nei suoi ranghi la maggioranza degli amministratori localidem”, che sono la spina dorsale del consenso elettorale al partito. Come ha ampiamente dimostrato il voto alle Europee, vince il Pd ma non la Schlein. Anzi, sarebbe corretto dire: nonostante la Schlein. Al Sud come al Nord, a tirare la volata non sono stati i candidati pescati dal cerchio magico della segretaria piddina ma quelli sostenuti dalle macchinemacinavoti” dei vituperati cacicchi. Il successo del nuovo corso del Pd alle Europee è stato un bluff destinato a essere smascherato. Per Elly il momento del redde rationem è giunto, con la scelta dei candidati presidenti alle ormai prossime Regionali. Accade così che in Toscana l’idea del vertice del Nazareno di rottamare il “cacicco” Eugenio Giani per fare posto a un fedelissimo della segreteria Pd è stata brutalmente rispedita al mittente da un perentorio diktat del governatore uscente che ha detto a brutto muso alla sua leader: qui sono e qui resto. Quindi? Di nuovo Giani.

Nelle Marche, il sogno di dare spazio a un ortodosso della linea Schlein si è spiaggiato sull’arenile di Pesaro, dove un inossidabile Matteo Ricci, un tempo renziano di ferro, ha imposto al partito il suo nome per la corsa alla presidenza regionale. Poi, la Puglia e la Campania. Se si dovesse scrivere un trattato accademico sui cacicchi, le storie politiche dei due governatori uscenti – Michele Emiliano e Vincenzo De Luca – entrambi in quota Pd, potrebbero essere citate come casi di scuola. Le coalizioni su cui hanno costruito e tenuto il potere per dieci anni (due legislature) hanno beneficiato di un consenso che è andato oltre il perimetro del centrosinistra. Sotto le mentite spoglie delle liste civiche, una schiera di notabili di origini democristiane o socialiste della Prima Repubblica, in grado di mobilitare una porzione di elettorato a scopi clientelari, ha determinato la vittoria dei due capibastone per eccellenza.

Patti di potere hanno consentito, in Puglia, a Emiliano di ricevere voti da personaggi noti a livello locale che hanno oscillato tra destra e sinistra avendo come stella polare il proprio tornaconto personale e del proprio pacchetto di voti. Idem in Campania, per Vicenzo De Luca. Se il sistema si fosse perpetuato riproponendo i medesimi candidati presidenti, per il centrodestra non vi sarebbe stata partita. Invece, è intervenuta la volontà del governo nazionale di limitare a due il numero dei mandati dei governatori. Questa novità ha fatto saltare il banco a sinistra nelle due regioni meridionali. Ma non allo stesso modo. Perché in Puglia ha prevalso la scelta di sostituire il “cacicco” Emiliano con il “cacicco” Antonio De Caro che, riguardo alla visione politica, è l’opposto di ciò che rappresenta Schlein e il suo variegato mondo radical-progressista. Se la partita non si è ancora chiusa con la formalizzazione della candidatura dell’ex sindaco di Bari è perché il prescelto ha posto condizioni capestro per la sua discesa in campo. Tali condizioni sono l’espressione plastica di una concezione paternalistica e da ras della gestione del potere.

De Caro nega tassativamente il diritto di seggio in Consiglio regionale ai due ex presidenti Michele Emiliano e Nichi Vendola. Il motivo è che i due sono troppo ingombranti. Con il peso specifico acquisito in anni di gestione del potere, condizionerebbero l’azione di Governo che, invece, lui rivendica per sé in via esclusiva e libera da ogni ipoteca del passato. Per dirla con una battuta, De Caro pone un veto e resiste non per demolire il potere dei cacicchi ma per avere il suo, sciolto da ogni vincolo, nel pieno spirito da “viceré” che il Sud conosce benissimo. In Campania, la questione è diversa. Lì un despota – Vincenzo De Luca – è costretto dalla legge a lasciare la poltrona che occupa da dieci anni. Avrebbe voluto designare un erede a sua immagine – magari da teleguidare a distanza – ma il partito non glielo ha consentito. In realtà, la Schlein ha beneficiato della palla curva lanciata da Gaetano Manfredi, sindaco piddino di Napoli e astro nascente del Partito democratico, a un furioso Vincenzo De Luca. La palla curva si chiama Roberto Fico, suo pupillo cresciuto nell’area della contestazione grillina a suon di “Vaffa!”. La leader dem ha colto al volo l’imbeccata e, facendo sponda con Giuseppe Conte, ha assegnato motu proprio (primarie bye, bye) ai Cinque stelle la casella facile della Campania.

De Luca ha opposto una resistenza degna della difesa di Stalingrado, minacciando il ricorso all’arma nucleare: presentare un suo candidato e una sua lista in opposizione al centrosinistra. La prospettiva ha spaventato la Schlein che, pur di evitare la rottura, ha ceduto il timone della Campania a De Luca, promettendo la nomina di suo figlio Piero a segretario regionale del partito. Non è cosa di poco conto, roba onorifica. Al contrario, si tratta di una capitolazione per il vertice nazionale del partito. Essere segretario regionale vuol dire decidere sulle candidature alle elezioni, scegliere gli assessori e i presidenti delle Commissioni regionali una volta vinta la sfida. In soldoni, significa condizionare la politica del governatore. Fico non è in una posizione comoda perché si trova a dover andare a braccetto con coloro che per anni ha insultato e accusato delle peggiori nefandezze. Di De Luca farebbe volentieri a meno, ma non può perché i voti ce l’ha il Governatore uscente.

Eppure, non basterà sfoggiare un sorrisetto di circostanza in una delle inevitabili photo opportunity che li ritrarranno assieme, uscente e subentrante. Fico dovrà fare un corso accelerato di storia per apprendere un po’ di cose sul trasformismo. Si scordi di portare a Palazzo Santa Lucia (sede del governo regionale della Campania) il bagaglio di fregnacce e di soluzioni lunari da asilo Mariuccia della politica, accumulate in anni di gioiosa “ammuinagrillina. Un assaggio di ciò che accadrà se e quando Fico diverrà governatore in Campania lo abbiamo già avuto. Il grillino ha dichiarato che intende chiudere il termovalorizzatore di Acerra, che ha salvato la Campania dal finire sommersa dai rifiuti. De Luca gli ha risposto a stretto giro che il termovalorizzatore sta bene dove sta. Roberto Fico, nato contestatore grillino da salotto deve convertirsi in deluchiano con ascendente democristiano e starsene tranquillo a tagliare nastri e a fare pubblici discorsi, lasciando che la sala macchine occupata dagli uomini di De Luca padre faccia navigare la nave regionale.

Vincenzo De Luca è fondamentale per il centrosinistra non solo perché è grande elettore, in tutti i sensi, ma perché è l’unico garante di un’intesa con quella area corposa e magmatica del centrismo locale, senza la quale nessuna vittoria elettorale è possibile. Fuori del mondo incantato di Elly e dei suoi “gnomi arcobaleno” c’è un mondo popolato da squali e marpioni dal pelo sullo stomaco, che fanno un discorso chiaro come il sole: pagare moneta, vedere cammello. Laddove per moneta s’intende il potere nelle articolazioni del sottobosco istituzionale regionale e il cammello sono i voti per vincere sul centrodestra. In Campania resiste un segmento di eredi demitiani e di mastelliani, che ha forza e vigore politico non avvertiti in superficie dall’opinione pubblica. Roberto Fico per parlare con Clemente Mastella ha bisogno di Vincenzo De Luca. E Mastella per dare i suoi voti, probabilmente determinanti, a Fico vuole che sia De Luca a firmare la fideiussione per garantirlo sulle scelte di politica locale e sugli organigrammi del nuovo corso.

Perché vi abbiamo raccontato tutto questo? Per mostrarvi una banale verità che fa strame di tutta la retorica progressista con cui i media ci hanno inondato in questi anni di guida Schlein del Pd: come Sansone aveva la sua forza nella folta chioma, la linfa vitale che tiene in vita il Partito democratico è quella che sugge dalle vene abbondantemente irrorate dei suoi intramontabili cacicchi.

Aggiornato il 05 settembre 2025 alle ore 10:48