
L’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789, l’immortale lascito della Rivoluzione francese, stabilisce: “Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione”. Sebbene anche prima del fatidico ’89 il potere assoluto del Re non fosse poi assoluto in ogni senso e una qualche divisione dei poteri fosse preservata da forme tramandate e aggiornate di garanzie feudali, la Dichiarazione è categorica, nella forma e nella sostanza, nel sancire e riconnettere la libertà costituzionale alla separazione dei poteri come garanzia dei diritti individuali. Dopo di allora la separazione dei poteri è stata considerata l’idolo del costituzionalismo e realizzata in vari modi, secondo modelli di ordinamento riflettenti la storia dei Paesi che pretesero di normare quell’ideale rivoluzionario. La separazione dei poteri fu attuata in senso verticale, con l’intento della loro quasi incomunicabilità, dalla coeva Rivoluzione americana, mentre altrove, sia dapprincipio nel primo “parlamentarismo” che dipoi nel “parlamentarismo razionalizzato”, la separazione assoluta fu stemperata in formule, se non proprio miste, tali da attenuare le contrapposizioni e i conflitti, che la natura umana genera di per sé quando incarna una carica o una istituzione del potere politico, il più distruttivo se non raffrenato dalla coesistenza costituzionale.
Forse l’ho presa un po’ troppo alla lontana, ma mi è parso lo sfondo necessario innanzitutto per far risaltare che nella Costituzione italiana il legislativo, l’esecutivo, il giudiziario sono frammentati piuttosto che separati e poi per rimarcare per l’ennesima volta che non esiste separazione dei poteri senza separazione degli uomini di potere, a cui alludeva davvero la Dichiarazione del 1789. Il sistema di “governo parlamentare” vigente in Italia, nel quale i governanti legiferano e i legislatori governano, con l’aggravante che il regionalismo moltiplica la commistione fino a configurarsi come la principale fonte di conflitti tra Stato e Regioni, men che l’avveramento della separazione dei poteri affermata dai rivoluzionari francesi, ne rappresenta un’indebita complicazione. In Italia è venuto a codificarsi un principio non scritto dalle molte sfaccettature: la leale collaborazione tra i soggetti, gli organi, le istituzioni legittimate a dichiarare la volontà di un potere. Sennonché questa leale collaborazione non solo assume talvolta connotati disfattisti ma diventa pure il modo con cui riescono a beffare la formale separazione dei poteri.
Esiste una grande separazione dei poteri iscritta nella Costituzione e una piccola commistione dispersa in leggi, regolamenti e prassi, che la contraddice fattualmente, talvolta in modo vistoso. Prendiamo il ministro della Giustizia, l’unico ministro indicato nominativamente nella Costituzione, che gli attribuisce la facoltà di promuovere l’azione disciplinare e l’organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia. Il ministro e il Ministero della Giustizia sembrerebbero dover badare al buon andamento degli uffici serventi l’esercizio della giurisdizione e perciò disporre di esperti della gestione amministrativa. Invece, il ministero è inzeppato non già di dirigenti con preparazione manageriale ma di magistrati sottratti per anni ai loro compiti professionali. Non esiste nessuna ragione per la quale il Ministero della Giustizia debba pullulare di magistrati con compiti amministrativi e paragiudiziari, talché sembrino “governare” il Ministero anziché esserne “governati”. Chi creda che tutto questo non concretizzi una commistione di poteri e di uomini di potere, ebbene può credere di tutto. Non si registrano tentativi seri e realistici del potere legislativo per mutare l’intreccio ministeriale tra potere esecutivo e potere giudiziario.
In passato era invalso l’uso di nominare magistrati, addirittura in servizio nelle procure della Repubblica, come membri di commissioni di collaudo delle opere pubbliche con l’incarico implicito di vegliare sull’appalto dei lavori, sottintendendo di “garantirne” la regolarità penalistica. Insomma, il potere esecutivo si associava il potere giudiziario per ottenerne il “visto di conformità” alle decisioni del potere legislativo. Celebri furono le commissioni di collaudo dopo il terremoto del 1980-1982 in Campania, dove casualmente tutto fu riscontrato regolare. È significativo che questa fattispecie venne riguardata come conflitto d’interessi anziché come violazione della separazione dei poteri. E lasciamo stare che anche oggi qualche amministratore consulta la procura per farsene rassicurare sul rischio d’inchiesta penale.
Infine, il caso clamoroso del commento di Gabriele Albertini sull’inchiesta giudiziaria che ha coinvolto anche il sindaco di Milano Beppe Sala per irregolarità edilizie. Gabriele Albertini, a lungo sindaco di Milano, ha tenuto a precisare che nessun procedimento penale fu aperto contro di lui o la sua giunta per irregolarità nello sviluppo urbano. Fin qui, tutto bene. Poi Albertini ha aggiunto una dichiarazione sorprendente, che, incredibile a dirsi, non ha sorpreso nessuno, men che meno le prefiche e i campioni dell’indipendenza della magistratura e della rigorosa separazione tra politici e magistrati: “Avevo un rapporto simbiotico con la Procura della Repubblica di Milano e con il procuratore capo Francesco Saverio Borrelli che mi ha offerto una collaborazione totale, consigli, suggerimenti. Quando dovevo fare delle nomine gli mandavo i nominativi perché lui potesse vagliare la condizione giudiziaria dei soggetti. Ricevevo indicazioni anche quando le indagini erano appena iniziate e non erano ancora note alla persona, ma era giustificato dalla necessità di prevenire la corruzione. Abbiamo anticipato di vent’anni l’Anac di Cantone creando il gruppo “Alì Babà” per consigliare l’amministrazione ed evitare fatti corruttivi: era composto da tre magistrati e tre dirigenti apicali. Ha introdotto i patti di integrità nel sistema degli appalti e consentito alla nostra amministrazione, nel quasi decennio, di allontanare dalla possibilità di partecipare ad appalti oltre 600 aziende che si erano dimostrate scorrette perché avevano cercato di eludere la concorrenza con scambi di proprietà e altre irregolarità” (Gabriele Albertini, Il Giorno, 18 luglio 2025).
Dunque, Gabriele Albertini e Francesco Saverio Borrelli realizzarono un inusitato “cogobierno” paralegale di Milano, un governo condiviso tra il sindaco eletto, un politico, e il procuratore della Repubblica, un magistrato di carriera, in spregio non solo della separazione dei poteri, ma della stessa legittimità costituzionale. Il “gruppo Alì Babà” (sic!) composto da tre magistrati e tre dirigenti amministrativi, consigliava l’amministrazione per evitare fatti corruttivi. Il “cogobierno” era sistematico, una struttura parallela e riservata, occhiuta, che vagliava e vegliava sulla moralità personale e societaria degli interlocutori del Comune e sulla condizione giudiziaria dei potenziali contraenti. Non solo il “rapporto simbiotico” (sic!) disvelato da Albertini come cosa commendevole dimostra in generale che nel Bel Paese la comprensione e la considerazione della separazione dei poteri siano propriamente all’italiana, ma pure che la separazione degli uomini di potere non è percepita quale coessenziale dell’altra. A Milano, stando alle parole di Albertini, il sindaco giudicava e il procuratore amministrava, scambievolmente.
È oltremodo considerevole ed istruttivo sul piano della nostra cultura costituzionale che il “caso Albertini”, sebbene abnorme, sia scivolato via come un elemento cronachistico a latere del “caso Sala” e che né politici avveduti né magistrati consapevoli abbiano sentito l’urgenza di aprirsi alla confessione e al pentimento per l’esemplare caso di commistione dei poteri, glissando sull’emblematico accadimento e consegnandolo alla storia, mentre forse come tipologia è ancora parte integrante, sebbene negletta, dell’attualità e della costituzione materiale.
Aggiornato il 01 agosto 2025 alle ore 10:00